mercoledì 22 novembre 2017
A Sochi entra in scena una inedita "Alleanza" fra Russia, Turchia e Iran che potrebbe ridisegnare gli equilibri di buona parte del Medio Oriente. Un futuro in cui Europa e Usa non sono coinvolti
Stretta di mano tra Putin e il presidente siriano Assad a Sochi sul Mar Nero, in Russia (Ansa)

Stretta di mano tra Putin e il presidente siriano Assad a Sochi sul Mar Nero, in Russia (Ansa)

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Il vertice di oggi a Sochi servirà al Cremlino, “primus inter pares” fra Teheran e Ankara, a proclamare la sconfitta militare del Califfato islamico. Un passo concordato lunedì sera con Bashar el-Assad, che non incontrava Putin dal 21 ottobre del 2015, vale a dire poche settimane dopo il via libera di Mosca ai raid aerei sulla Siria (30 settembre 2015). Se la visita di due anni fa sul Mar Nero – la prima del raís all’estero dal 2011, anno di inizio della guerra civile – segnò la svolta militare contro il Daesh e contro l’opposizione interna al regime, il blitz diplomatico di lunedì sera potrebbe essere l’inizio della “restaurazione” post-Califfato.

Mentre la vittoria militare – in attesa della caduta dell’ultima ridotta di Abu Kamal lungo il confine tra Siria e Iraq – è evidente, a Sochi entra in scena una inedita “Alleanza” fra Russia, Turchia e Iran. Un «asse di ferro» preparato da gennaio nella serie di vertici ad Astana dove si è progettato il dopo Daesh che potrebbe, in prospettiva, ridisegnare gli equilibri di buona parte del Medio Oriente. Un futuro di cui Europa e Stati Uniti non sono minimamente parte: la telefonata di Trump a Putin di ieri è il “via libera” non solo al piano da superpotenza di Mosca nella regione, ma anche al disinteresse di Washington e all’irrilevanza dell’Europa.

Con forza, invece, è la «Mezzaluna sciita» a entrare in gioco, capace di portare le sue milizie a Mosul in Iraq, come a Raqqa in Siria, e di saldarsi – sciiti siriani e iracheni – proprio al confine siro-iracheno che corre alla periferia di Abu Kamal. Teheran come potenza regionale, per garantire sul terreno una “pax siriana” benedetta dal Cremlino. E accettata da Erdogan capace, con una giravolta, di scordare la crisi del novembre del 2015 dopo l’abbattimento del jet russo che aveva sconfinato dalla Siria. Due anni lunghissimi, con la questione curda in grado di promuovere rivoluzioni copernicane di alleanze. Le Forze democratiche siriane, in gran parte curdi che sognano un “Rojava” autonomo, rischiano la stessa sorte dei peshmerga iracheni: nessuna potenza le appoggerà. Una spartizione che cancella ogni opposizione che non sia accetta al regime, compreso il mai sopito irredentismo sunnita e con l’Onu a fare da arbitro, con dossier su crimini di guerra mai andati in giudizio, di una partita già giocata. Sarà una Siria spartita in campi di interesse più forti di vecchi confini che tutti conoscono ma nessuno rispetta più.

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