sabato 4 gennaio 2025
Le autorità di Sanaa sono determinate a riprendersi le proprie opere: «Includeremo la questione del patrimonio artistico trafugato in ogni futuro negoziato di pace»
In Yemen si sta cercando di evitare che i tesori diventino prede di guerra

ANSA

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Abdallah Mohammad Thabet ha il completo in terital color sabbia, la sciarpa tartan e i baffi sale e pepe curatissimi. Gli occhi gli brillano di memorie, mentre toglie un dito di polvere sul cofano della Rolls Royce di Sua Maestà, la regina del Regno Unito Elisabetta II. «Avevo sei anni: mi fecero portare i fiori alla regina, alla fine della parata di Aden: era giovane e bellissima. Sono ricordi lontani, tempi che non tornano più». Non approfondiamo la sua nostalgia perché una dichiarazione in più potrebbe costargli cara, ma quel che è certo è che questo funzionario scrupoloso dell’Autorità yemenita per l’Archeologia e i musei, che adesso si limita alla consulenza e a mettere al servizio delle milizie Houthi cinquant’anni di competenza territoriale, ama lo Yemen più di se stesso. Ne ama anche la polvere che rileva su questo cimelio inglese, segno tangibile delle antiche relazioni del Paese con il Regno Unito, e di cui la visita della regina Elisabetta nel 1954 fu la punta di diamante di un’epoca ormai definitivamente sepolta. Abdallah Mohammad Thabet ha lavorato per cinquant’anni al servizio della presidenza di Ali Abdullah Saleh.

Ogni centimetro del suo viso e del suo abbigliamento ci restituiscono l’immagine del vecchio socialista arabo: l’uomo coltissimo e laico quanto basta per accettare di lavorare per uno Stato nazionale e nazionalista, orgoglioso delle sue ricchezze e specificità. Così il dottor Thabet è stato in grado, in questi dieci anni di governo delle milizie sciite, di mettersi prima al servizio del rientro al potere dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh e poi, una volta che Saleh è stato assassinato dagli stessi miliziani, è stato impiegato per redigere un’opera monumentale: un volume che è un inventario di tutti i beni archeologici immobili dello Yemen, da Nord a Sud, e soprattutto una testimonianza del loro stato attuale. Nell’inventario ci sono circa 800 siti, le foto di come erano prima del 2015, le foto di come sono ridotti oggi. «Soprattutto i beni a Nord, nella città di Saada e al confine con l’Arabia Saudita, sono stati spazzati via dai bombardamenti sauditi, da crolli, da azioni dell’artiglieria nemica». Il volume è l’ultima fatica del dottor Thabet che ci riceve nella biblioteca dell’ufficio dell’Autorità generale per l’Archeologia e i Musei, mentre nel cortile del Museo nazionale le giovani studentesse universitarie e alcuni studenti medi si fanno i selfie davanti alla Rolls Royce riparata da un cordone color amaranto: le ragazze provano ad essere regine per un giorno come la Middleton, da dietro il niqab e con una buona dose di kajal e mascara sulle ciglia nerissime e finte, le lunghe vesti scure sollevate di poco per fare vedere i jeans tempestati di brillantini e i mocassini in vernice nera. Il dottor Thabet non sembra odiare i giovani, ma si lascia andare ad un lungo lamento «sull’incapacità di questi studenti e dei turisti locali di comprendere il valore del patrimonio archeologico yemenita»: tra lui e un sovrintendente degli italianissimi Uffizi non c’è molta differenza in quanto alla preoccupazione nei confronti di un mondo concentrato su altri valori materiali e ignorante della forza della storia patria. Tuttavia, il nuovo corso delle politiche di Ansarullah nel Nord dello Yemen punta chiaramente al protezionismo culturale. Aubad al-Hayyal, direttore dell’Autorità Generale, ci riceve nel suo ufficio, vestito con l’abito tradizionale, lo scial sul capo, la jambia (il pugnale tribale, ndr) alla cinta.

Loda l’operato di Thabet ma, soprattutto, lamenta la rivalità con il governo yemenita di Aden, riconosciuto internazionalmente, responsabile – a detta di al-Hayyal – di chiudere più di un occhio sul traffico di beni museali mobili, dalle iscrizioni pre-islamiche ad antichissime copie di Torah yemenite, e di Bibbie della prima era cristiana, intercettate ai check-point del Sud dello Yemen, se non quando ritrovate in vendita all’asta in gallerie svizzere, come è stato il caso dei 77 manufatti attualmente recuperati dallo Smithsonian Institute, comprese pregiatissime stele funerarie, ed esposti al Museo Nazionale di Arte Asiatica di Washington, in attesa di essere restituiti al Paese. «Parliamoci chiari – lamenta –: come definireste, se non sottomesso ad altri interessi, un governo che, di fronte alla denuncia del direttore del valico di frontiera del governatorato del Sud di al-Mahra che aveva sequestrato tre libri sacri della Bibbia e del Vangelo e li aveva trattenuti in Yemen, per impedire a questi beni storici di lasciare il Paese, ha ricevuto dal governo di Aden l'ordine di farli partire? E come reagireste sapendo che al suo rifiuto le autorità del governo del Sud lo hanno licenziato, in modo che i libri potessero lasciare il Paese? Le autorità yemenite dovrebbero preservare le antichità nazionali, ma basta dare loro un quantitativo in denaro che la nostra Storia si perde oltre i nostri confini». Il direttore è furente: tira fuori la carta storica dei beni italiani rubati da Napoleone e oggi al Louvre per esprimere la frustrazione del funzionario dei beni culturali yemeniti deprivato del suo bene nazionale. Per un italiano è difficile dargli torto, tanto quanto è difficile per un iracheno accettare che la porta di Ishtar si trovi a Berlino e per un greco realizzare che i fregi del Partenone risiedano da secoli al British Museum: «Guardi al caso dei 77 manufatti storici yemeniti ancora a Washington: l'Occidente coopererà con noi restituendoci le nostre antichità, oppure inventerà mille scuse per tenersele lì? Non è accettabile. Cercheremo di includere la questione delle antichità in ogni futura negoziazione per la pace in Yemen: questi beni sono nostri, questa è una parte dell'identità yemenita». Pensare che i beni archeologici non facciano parte di una discussione sulla guerra e sull’attuale situazione del Medio Oriente è pura miopia. Aubad al-Hayyal punta il dito sulla distruzione dei siti libanesi di Balbeek, di Tiro e di Sidone, da parte dell’esercito israeliano e la applica a disastri paralleli compiuti dai sauditi in Yemen: «Di fronte a questi crimini è necessaria una compensazione. Ma che tipo di compensazione potrebbe esserci data per la distruzione dell'antica diga del Marib? Della moschea di Al-Faza a Tihama? Dei castelli a Tihama? Quale potrebbe essere la cosa che potrebbe compensarci? Nulla. Questi antichi beni storici non tornano indietro».

A questo punto, bene sarebbe preservare il preservabile. Ma i recenti bombardamenti israeliani sull’aeroporto di Sanaa che hanno fatto tre morti e 14 feriti e l’intenzione delle milizie Houthi di non fermarsi nei confronti dell’aggressione a Israele non depongono per immaginare una preservazione certa di quel che resta dell’enorme patrimonio archeologico yemenita. Solo nel cortile del Museo nazionale di Sanaa, nelle diverse stanze interne allestite, contiamo centinaia di sarcofagi, stele funerarie e iscrizioni pre-islamiche, quasi tutte provenienti dalla contesa regione del Marib. Non tutti sono preservati perfettamente: su molti ci sono i segni del tempo e spaccature sulla pietra, dovute a erosione, cattiva conservazione, effetti dei bombardamenti degli ultimi anni. L’interno della primissima e più antica casa in stile architettonico sanaani dove è allestito il Museo Nazionale è ancora perfettamente conservato con le sue antichissime qamaryie (finestre) in vetri arcobaleno e gli infissi esterni in legno intarsiato magistralmente (mashrabiyyah). Ci guida in questo percorso la direttrice del Museo, la dottoressa Jamila Majam, una delle rare donne in ambienti governativi che non copre il volto con il niqab. Jamila è una storica dell’arte ed è in questa struttura da quasi quarant’anni, quasi tanto quanto il dottor Thabet. «Guidare qui i visitatori e i diplomatici è il momento più bello del mio lavoro». Il suo volto si accende in un sorriso quando ragioniamo sulla bellezza dei tessuti originali femminili dell’area, nei colori sgargianti del rosso, del giallo e dell’oro. Poi, quando decidiamo di inquadrare la pubblicità dei nuovi campus estivi femminili per studentesse, organizzato dal partito degli Houthi, e che campeggia sul palazzo che dà sulla piazza, esattamente di fronte al museo, non dice nulla. Semplicemente si volta e chiude le imposte di legno, facendoci desistere con un «quello non è così importante».

(4. Fine. I precedenti articoli sono stati pubblicati l’1, l’11 e il 15 dicembre 2024)


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