La marcia di Glasgow dell'11 gennaio scorso promossa da «All Under One Banner» - Ansa
Si alza un vento gelido, su questa verde vallata ora resa immacolata dalla neve, punteggiata in lontananza da piccole mandrie di cavalli, aziende agricole e villaggi di pietra senza tempo. Castello di Stirling, cinquanta chilometri a nord di Edimburgo, da sempre chiave della Scozia, lì dove finisce l’estuario e si restringe il fiume Forth che divide le basse terre del sud dalle regioni del nord. È qui, su questa piana, che William Wallace diventò Braveheart infliggendo agli inglesi una durissima sconfitta e diventando per sempre simbolo di libertà di un popolo intero. Oltre sette secoli dopo, il mito di una Scozia indipendente resiste e si rinsalda, cullato da quella scia nazionalista che ha sempre rappresentato se stessa solo in contrapposizione a Londra e che ora vede nella Brexit un rischio e un’opportunità. Bandiera con la croce di sant’Andrea in mano, cartelli pieni di «Yes» e «Independence Now», decine di migliaia di indipendentisti, lo scorso 11 gennaio, hanno attraversato le strade di Glasgow, mentre a ottobre erano in 200mila sul Royal Mile di Edimburgo. «Nel 2020 saranno in tutto 8 i cortei in diverse città, la prossima sarà il 4 aprile ad Arbroath, dove celebreremo i 700 anni dalla Dichiarazione di indipendenza della Scozia», si infervora Andrew Wilson, membro degli organizzatori di All Under One Banner (Auob), associazione fondata nell’ottobre 2014, all’indomani del referendum sull’indipendenza che segnò una sconfitta bruciante per i secessionisti.
La maggior parte degli scozzesi non ne vuole saperne di lasciare la Ue e seguire l’avventura del premier. Lo hanno detto nelle urne un mese fa E nel 2020 sono 700 anni dallo «strappo» dall’Inghilterra
«Ma allora laburisti e conservatori riempirono la gente di promesse – sottolinea ancora –. Ci dissero che saremmo restati nell’Ue e considerati come partner uguali all’interno del Regno Unito, oltre ad annunciare che il Parlamento scozzese avrebbe avuto più poteri. Ma niente di questo è stato realizzato, le promesse sono state infrante». La Brexit, ufficiale da venerdì sera, era ancora di là da venire e i principali partiti sottolineavano anzi i vantaggi della permanenza della Scozia nel Regno Unito, giustificandola proprio con l’appartenenza all’Unione Europea. Oggi, di lasciare l’Ue e di seguire l’avventura del premier conservatore Boris Johnson, la maggior parte degli scozzesi non ne vuole sapere. Lo hanno detto nelle urne poco più di un mese fa, quando hanno consegnato agli indipendentisti dello Scottish national party (Snp) 47 dei 59 seggi scozzesi a Westminster, mentre i conservatori locali crollavano. D’altronde anche nel referendum del 2016 due terzi degli scozzesi avevano votato contro la Brexit. Nell’uscita dall’Unione l’europeista Scozia vede il rischio di 80mila posti di lavoro in bilico, di 120 milioni di euro l’anno di fondi strutturali in meno, di un mercato unico a cui sarà più difficile accedere, della mancanza di manodopera. Ma vede anche l’opportunità di tornare ad alzare la voce sull’indipendenza da Londra. Nei giorni scorsi Johnson è stato netto: un altro referendum non ci sarà, ma la first minister scozzese e leader dello Snp Nicola Sturgeon continua a premere, anche se gli indipendentisti rifiutano paragoni con il caso Catalogna. «Non ci sarà un referendum irregolare – insiste Wilson –, ma proteste di strada e pressioni politiche per Londra diventeranno insostenibili, procederemo per vie legali e democratiche. Nel Regno Unito esiste una partnership tra quattro entità, Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord. E per definizione se un partner vuole uscire da una relazione che non funziona non può esservi legato per sempre. La Catalogna invece è un dipartimento, c’è una Costituzione che identifica la Spagna come un Paese unito. La situazione è diversa».
Wilson, leader secessionista: «Le proteste per Londra diventeranno insostenibili» Andrew Wilson La marcia a Glasgow, dell’11 gennaio scorso, promossa da «All Under One Banner»
«Cos’è essere scozzesi? Odiare gli inglesi», ti rispondono ancora oggi molti nazionalisti nei dintorni di Holyrood, il Parlamento locale, senza riflettere anche sui vantaggi di cui la Scozia ha goduto in questi tre secoli di unione con Londra. Un risentimento acuto, che fa leva sul declino industriale che ha visto andare in crisi acciaierie e cantieri navali, sulla voglia di gestire in proprio i proventi petroliferi del Mare del Nord, sul desiderio mai nascosto di creare al di qua del vallo di Adriano una socialdemocrazia di stampo scandinavo. E, non da meno, sull’imperativo di non farsi governare da un esecutivo conservatore, con i tory visti da queste parti solo come freddi snob dall’accento “posh”, benestanti buoni per studiare a Eton e dirigere grandi aziende con troppa avidità. Una Scozia indipendente equivarrebbe per Londra a un’amputazione senza anestesia. Via un terzo del territorio britannico, via l’85% delle riserve di petrolio e gas, via i sottomarini nucleari dalla base di Faslane. Con un’economia da 170 miliardi di sterline, la Scozia produce l’8% dell’intera ricchezza britannica e contribuisce all’8,2% di tasse (senza considerare l’industria del greggio).
170 miliardi
il Pil (in sterline) della Scozia, che produce l’8% dell’intera crescita economia britannica
+23%
l’aumento di esportazioni dalla Scozia verso l’Unione Europea registrato nel corso del 2017
Il suo deficit, però, è al 7% del Pil, sette volte quello dell’intero Regno Unito, altro motivo, secondo gli indipendentisti, perché la Scozia torni a controllare le proprie politiche economiche. Leith, sobborgo portuale di Edimburgo. Lì dove i giovani “tossici” raccontati da Irvine Welsh in Trainspotting cercavano il loro posto in un mondo che non capivano, immersi in un tessuto sociale popolare ma ancora autentico, ora è tutto un fiorire di nuove iniziative immobiliari, ristoranti bene, bistrot che si affacciano affianco ai pub storici. «Il primo ministro sostiene che non si voterà più sull’indipendeza, ma questa non è democrazia – sottolinea Ruth Kircaldy, commerciante –. Se la gente in Scozia lo vorrà, allora voteremo di nuovo. Impedirlo sarebbe antidemocratico».
Ma l’Ue sarebbe pronta ad accogliere Edimburgo? «Nel caso di un referendum legale lo sarebbe certamente – è convinto Jim Townsend, insegnante –. La Scozia è sempre stata un membro entusiasta dell’Ue. A differenza dell’Inghilterra, abbiamo storia di legami politici, religiosi e commerciali con molti Paesi in tutta Europa». Molto, su questo diffuso sentimento di autonomia, ha fatto la crisi degli ultimi anni: basti pensare che sono oltre 800mila i poveri su poco più di 5 milioni di abitanti e pochi pensano che Londra abbia una strategia utile alla creazione di posti di lavoro. A Stirling – oltre 4 milioni di visitatori l’anno – è il turismo il settore su cui punta il governo locale. Braveheart Wallace, la battaglia di Bannockburn, storie di vittorie e libertà che si tramandano da secoli. Eppure, trecentotredici anni dopo l’Unione, troppi scozzesi si sentono ancora i cugini sventurati dell’inglese medio. E chiedono di diventare qualcos’altro, investendo le loro risorse lì dove il loro mito risiede. Per costoro, Brexit o non Brexit, la stessa “Britishness”, la “britannicità”, è solo una versione egocentrica e allargata dell’“inglesità”. Nulla di meno. Nulla di più.
L'Europarlamento dice sì alla Brexit
Con momenti di forte emozione si è tenuta mercoledì l’ultima sessione del Parlamento Europeo cui hanno partecipato eurodeputati britannici. Con 629 «sì», 49 «no» e 13 astensioni l’aula ha dato il suo sì all’accordo di recesso, ultimo atto prima della Brexit, che avverrà alla mezzanotte di venerdì. Tutta l’aula si è alzata in piedi per cantare il Valzer della candele, tradizionale canzone scozzese per i congedi.
«Mi rattrista profondamente – ha detto il presidente del Parlamento David Sassoli – che un membro, partner e amico di lunga data dell’Ue abbia deciso di lasciare la famiglia dell’Unione, sentiremo la vostra mancanza». «Vi ameremo sempre – ha dichiarato anche la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen – e non saremo mai lontani».
Mentre vari eurodeputati britannici hanno dato segni di commozione, non sono mancati gli strali di uno degli artefici della Brexit, Nigel Farage. «Adoriamo l’Europa – ha inveito – ma odiamo l’Ue. Spero che sia l’inizio della fine di questo progetto anti democratico». (G.M.D.R.)