Dopo quattro mesi, i leader di Kinshasa e Kigali hanno aperto alla de-escalation I ribelli: «Un’illusione» L’Onu: «Si rischia un conflitto incontrollabile»
Esther ha 16 anni e riesce per qualche minuto a trattenere l’emozione, mentre racconta la sua difficile storia personale. È quando però un’amica sciorina la sua, inanellando le violenze subite, il disagio di sentirsi un peso per la propria famiglia, il rischio di finire sulla strada, che la 16enne scoppia in un pianto a dirotto, irrefrenabile, un pianto che sembra racchiudere quello di una comunità intera. Prima di loro, ex bambini di strada, 10-12 anni al massimo, oggi accolti dal Centro Don Bosco Ngangi e sostenuti da un progetto dell’Ong Vis, testimoniano difficoltà indicibili. Padri spesso inesistenti, madri con “troppi” figli a cui badare, il percorso verso la strada, le violenze, i furti, la droga. Con il rischio di finire arruolati nei gruppi armati. Goma, Nord-Est del Congo, epicentro del conflitto più dimenticato al mondo, di una guerra decennale che ormai non è più solo quella delle milizie, dell’esercito, degli interessi delle multinazionali o dei Paesi vicini. È la guerra di tutti, della disgregazione sociale, di una povertà estrema – nonostante le enormi ricchezze del Paese – che finisce con il distruggere quotidianamente anche i rapporti familiari. È qui che il Papa sarebbe voluto venire nei giorni scorsi per portare il suo messaggio di riconciliazione e speranza, prima di dover rinviare il viaggio per motivi di salute. Nel frattempo, alle porte della città, si è tornati di nuovo a sparare. A una ventina di chilometri di distanza, lungo la strada in cui un anno fa restarono vittima di un agguato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, i miliziani filoruandesi del gruppo M23 e le forze armate congolesi si confrontano da marzo su un territorio impervio e dalla vegetazione fittissima.
Nella regione uno stato d’assedio permanente
2,2milioni
Gli sfollati nella sola provincia nordorientale del Nord Kivu
1.261
Le vittime civili nella regione, secondo l’Onu, tra giugno 2021 e marzo 2022
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Il governo congolese accusa ormai apertamente il Ruanda e l’Uganda di sostenere le milizie. Ma è soprattutto con il governo di Kigali che la contesa è aperta, punto di arrivo di un’ostilità «antica» verso i ruandesi tutsi, sospettati di sfruttare le risorse della regione con il supporto delle multinazionali. Il sottosuolo di questa provincia, il Nord Kivu, è forse il più ricco al mondo: oro, cobalto, minerali di ogni genere compreso il coltan, indispensabile per i nostri smartphone. Una ricchezza diventata una maledizione. Oltre all’M23, i gruppi armati nella zona sono oltre un centinaio. «Le milizie hanno offerto la loro alleanza all’esercito contro l’M23, il nemico comune è il Ruanda – spiega un responsabile della sicurezza locale – . Il rischio è che aumenti l’arruolamento, e quindi che si ingrandisca il conflitto. L’M23 può contare su circa 1.500 uomini: non sono molti, è vero, ma hanno mezzi e competenza, oltre al sostegno di Ruanda e Uganda, per cui possono sopraffare l’esercito».
A giugno l’M23 ha strappato all’esercito la località di Bunagana, strategica nel commercio transfrontaliero tra Congo e Uganda e le autorità del Nord Kivu hanno parlato di violazione dell’integrità territoriale da parte del Ruanda, che a sua volta accusa Kinshasa di sostenere le milizie hutu Fdlr. Il controllo delle risorse minerarie resta il vero motore del conflitto. «Di recente il governo congolese ha introdotto la tracciabilità delle esportazioni minerarie, le frodi sono diminuite – osserva una fonte – . Ma questo non fa il gioco del Ruanda e delle aziende straniere ». L’instabilità nel Kivu si aggiunge peraltro a quella nel-l’Ituri, dove altri gruppi armati spadroneggiano sul territorio congolese, mentre nella zona di Beni colpiscono gli islamisti delle Forze democratiche alleate (Adf). Nelle città, la retorica del governo congolese contro Kigali ha già provocato raid e saccheggi contro la comunità ruandese sia nella capitale Kinshasa che qui nel nord-est: il presidente ruandese Paul Kagame è stato spesso ritratto con i baffi da Hitler. Per l’inviato Onu in Congo, Bintou Keita, c’è il rischio concreto di un conflitto incontrollabile. Mercoledì, nella capitale angolana Luanda, Kagame ha finalmente incontrato il presidente congolese Felix Tshisekedi, che ha chiesto l’esclusione dei soldati ruandesi da una forza regionale istituita ad aprile per combattere i gruppi armati nell’est del Congo. Alla fine dei colloqui, i due leader si sono detti d’accordo sulla cessazione delle ostilità, ma il portavoce dell’M3 ha già definito l’intesa «un’illusione». Ventiquattr’ore dopo, gli scontri erano già ripresi nella zona di Rutshuru.
Per le strade di Goma, quasi ovunque sterrate di pietra lavica, frutto delle disastrose eruzioni del vicino vulcano Nyiragongo, si prova comunque a vivere. Ai margini della carreggiata si vende di tutto, dal carbone alle schede telefoniche, così come i pochi frutti che la terra riesce a dare: qualche pomodoro, banane, verdure. Bambini di pochi anni tengono sulle spalle fratellini minori, ogni tanto li perdi nel mare di teste che li sovrasta, poi rispuntano spavaldi in un angolo. «Questa nuova guerra, purtroppo, è già qui tra noi, ma la popolazione è stanca di conflitti e invoca la pace», osserva il vescovo di Goma monsignor Willy Ngumbi, secondo il quale sia i militari che i gruppi armati sono responsabili di saccheggi nei villaggi e della fuga di centinaia di migliaia di persone, costrette a vivere nei campi profughi. Qui a Goma e nei dintorni il conflitto finisce con aumentare anche l’insicurezza alimentare. In tutto il Congo gli sfollati hanno raggiunto quota 5,5 milioni: circa 2,2 milioni sono proprio nel nord-est, ma nel 2021 è stata raccolta solo la metà (876 milioni di dollari) dei fondi necessari ai loro bisogni.
Proprio il Congo è non a caso in testa all’annuale graduatoria del Norwegian refugee council’s sulle crisi umanitarie. Nel quartiere di Ngangi, a Goma, il programma messo a punto dal Vis insieme ai salesiani è tra quelli che offrono ai giovani della città una speranza concreta, in mezzo al marasma quotidiano. I corsi di formazione per i ragazzi durano in genere nove mesi, «un tempo adatto – fa notare la responsabile Monica Corna, a Goma da 20 anni – perché ragazzi e ragazze possano riprendere in mano il proprio futuro e, allo stesso tempo, poter tornare a stare in famiglia». Ci sono corsi di cucito, di parrucchieria, di cucina, a settembre ne inizierà uno di meccanica, grazie a fondi della Cei. Altre tre aule, invece, sono dedicate al recupero degli anni scolastici, in gran parte per bambini di strada, molti dei quali ora hanno la possibilità di dormire qui. «La violenza è la cosa più difficile, quando vivi per strada – dice Jospin, 12 anni –. Dovevamo mendicare, rubare, raccogliere rifiuti. Qualcuno più grande è andato anche a combattere. Non lo auguro a nessuno, ora voglio solo stare qui, studiare e trovare il mio percorso». Scende su Goma una sera sferzata dal vento, un manto scuro avvolge il lago Kivu, l’enorme massa d’acqua che fa da frontiera tra Congo e Ruanda, mentre un nuovo conflitto armato rischia di far deragliare i sogni di un’altra generazione.
EDUCAZIONE Una «scuola di pace» contro la corruzione
C’è una scuola, a mezzora dal centro di Goma, dove ogni giorno 350 bambini e ragazzi possono lasciarsi alle spalle la violenza intercomunitaria, i conflitti familiari, la povertà che blocca lo sviluppo di una regione intera. Un luogo di pace, nel punto del pianeta in cui meno la pace ha attecchito negli ultimi decenni, che è anche protezione dei diritti e modello per il Congo intero. La scuola, istituita dalla Comunità di Sant’Egidio, ha visto la posa della prima pietra a Mugungo nel 2008, non lontano da un campo profughi, per mano di don Matteo Zuppi, oggi cardinale arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. «È un posto in cui questi bambini possono passare delle ore lontano dalla strada e avere una buona educazione, cosa che qui nel Nord Kivu non è scontata. Non è un caso che tutti i bimbi della zona chiedano di venire a studiare qui», spiega la responsabile Aline Minani. Le aule si riempiono alle prime ore del mattino, bambini di età diverse ci accolgono cantando e si mescolano nel cortile con le loro divise, camicie bianche e pantaloni azzurri. «Al pomeriggio restano solo i più grandi, quelli dell’ultimo anno, che così hanno modo di preparare gli esami finali », spiega la direttrice Jeannette Soki.
La scuola è intitolata a Floribert Bwana Chui, membro di Sant’Egidio assassinato nel 2007 a soli 26 anni per aver detto no a ripetuti tentativi di corruzione. Floribert, da guardia doganale, aveva rifiutato infatti migliaia di dollari in cambio del suo sì all’importazione in Congo di alimenti avariati. Un rifiuto pagato con la vita. Da allora, Floribert è un modello per le giovani generazioni di un Paese in cui la corruzione, a ogni livello, mina dalle fondamenta i tentativi possibili di sviluppo. «Noi ricordiamo sempre il suo esempio, con la sua morte ci ha insegnato molto», aggiunge Aline.
Dotata di un impianto fotovoltaico grazie ai fondi della cooperazione italiana, la scuola ha all’interno anche una panetteria e un’infermeria, vista l’assenza di un ospedale in zona.
«La mia famiglia è contenta e grata per l’educazione che ho potuto ricevere qui – sussurra timidissimo con un filo di voce Olivier Ushindi, un alunno di 16 anni –. Se avessi la possibilità continuerei a studiare al college, mi piace molto la meccanica, ma serve molto denaro e non è facile ». Annuisce la sua compagna Brigitte Bienda, 13 anni, anche lei un tono di voce quasi impercettibile: «Questa scuola mi ha aiutato a vivere in pace con i miei amici, dandomi serenità. Un insegnamento che porterò sempre con me». L’esempio e il sacrificio di Floribert stanno dando così i loro frutti, attraverso il cammino di questi giovani di Goma che in una scuola hanno trovato un luogo di speranza in cui crescere insieme e immaginarsi un futuro diverso.
Medici senza frontiere avverte: «In tre mesi 117mila sfollati»
«Siamo diciotto famiglie e dormiamo tutti insieme, stipati in un’aula di questa scuola. Non abbiamo più accesso ai nostri campi e mangiamo quello che troviamo, spesso a malapena una volta al giorno».
Noélla vive ormai da diverse settimane con due dei suoi figli nella scuola del villaggio di Kinoni, a Rutshuru, insieme ad altre 350 famiglie. Come lei, lancia l’allarme Msf, sono 117mila i nuovi sfollati provocati dagli scontri scoppiati a fine marzo tra l’esercito congolese e il gruppo armato M23.
«Da quando abbiamo avviato le nostre cliniche mobili nei pressi di questa scuola a inizio maggio, abbiamo sempre lavorato a pieno regime, con una media di 120 pazienti al giorno e oltre 2.200 consultazioni», sottolinea Foura Sassou Madi, capo missione per Msf in Congo, che si sta preparando a rafforzare gli interventi.