Reuters
Lo spettro della pulizia etnica si affaccia nel Tigrai mentre la guerra ora colpisce Asmara, la capitale eritrea. Tre missili si sono abbattuti sulla “piccola Roma”, come confermato dalla tv sudanese. La guerra oscurata, nascosta, diventa sempre più violenta coinvolgendo i civili con massacri di centinaia di persone a colpi di machete e causando la fuga di migliaia di profughi in Sudan. E si è estesa all’Eritrea, facendo seguito alle minacce in diretta tv del ministro della Difesa tigrino. Quella che il premier Abiy Ahmed, Nobel per la pace 2019, ha presentato come una operazione di polizia contro una banda di terroristi, il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf), il partito che domina la regione settentrionale etiope, ha colpito i civili ed è deflagrata. Rischiando ora di “balcanizzare” tutto il Corno d’Africa.
Si tratta di una guerra anzitutto di propaganda, iniziata in parallelo con gli scontri il 4 novembre con l’oscuramento del Web e il taglio delle linee telefoniche nello Stato federato. Un blackout che rende molto difficile verificare le notizie. E la forza mediatica etiope, come quella militare, è schiacciante. Egitto e Sudan, che hanno un lungo contenzioso con Addis Abeba per la Grande diga del rinascimento sul Nilo, stanno a guardare.
Razzi sugli aeroporti
Ieri sera tre missili a lunga gittata lanciati dal Tplf hanno colpito l’aeroporto di Asmara vicino all’aeroporto, Forto Baldissera, sede del ministero della Informazione e nella zona chiamata Villaggio. Il presidente Isaias Afewerki si troverebbe a Barentu. Il Tplf ha dato seguito immediato alle minacce. Sul fronte occidentale venerdì ha risposto alle aggressioni della milizia regionale Amhara, alleata con Abiy, con razzi che hanno danneggiato gli aeroporti di Gondar e Bahir. Il presidente del Tigrai, Debretsion Gebremichael, ha dichiarato in più occasioni di considerare gli scali «bersagli legittimi».
Strage di civili?
Una strage che richiama i massacri etnici ruandesi o quelli balcanici degli anni 90 con gli stessi obiettivi, sterminare l’etnia nemica. La notizia del massacro di 500 lavoratori (cifra fornita dall’agenzia di stampa regionale Amma) a colpi di machete buca il velo che avvolge la guerra oscurata, ma la propaganda impedisce di verificare cosa sia successo veramente tre giorni fa a Mai Kadra, sul confine sudanese. Un video diffuso sui social e la cui attendibilità è stata verificata da Amnesty International mostra decine di cadaveri di civili trasportati a spalla. Chi ha compiuto il massacro? Amnesty, pur premettendo l’impossibilità di compiere verifiche sul campo, cita testimonianze di cittadini che incolpano le milizie del Tplf giunte in città in fuga dopo aver combattuto contro l’esercito federale e gli Amhara e che avrebbero compiuto un pogrom contro «tutti i civili non tigrini». L’organizzazione per i diritti umani chiede una indagine immediata e le fa eco l’Onu. Ma secondo l’agenzia Reuters, che ha raccolto le testimonianze di civili fuggiti in Sudan, ad al-Fashqa, la caccia all’uomo sarebbe stata scatenata invece dalle milizie Amhara, entrata nella città il 10 novembre dopo i tigrini. Le squadracce, oltre a uccidere i tigrini, avrebbero derubato le persone facendo razzia di bestiame. Vere e proprie scene da pulizia etnica.
uomini sono la forza di prima linea di Addis Abeba, 20mila i militari del fronte del Tigrai, migliaia i miliziani
sono i carri armati governativi, oltre metà dei quali T-72 ammodernati, due gli squadroni di caccia
La crisi umanitaria
Arido, con una economia pressoché agricola nonostante gli investimenti cinesi nella manifattura, provato dalle incursioni nei campi degli sciami di locuste, il Tigrai prima del conflitto aveva problemi di approvvigionamento alimentare e 600mila persone, il 10 per cento della popolazione regionale, sotto la soglia della povertà. I bombardamenti e la chiusura di banche e negozi rischiano di aumentare i problemi per la popolazione. In più la regione ospita in centri 100mila sfollati interni e 96mila profughi provenienti dalla confinante Eritrea. Il 44 per cento degli abitanti dei campi sono minori. L’Onu nei giorni scorsi ha dichiarato che il conflitto impedisce l’arrivo di forniture alimentari. In particolare si rischia una fuga di massa dal campo di Shimelba che ospita 6.500 rifugiati eritrei. «Nel Tigrai – ha denunciato don Mosè Zerai chiedendo un intervento Ue – vagano migliaia di eritrei spesso ridotti alla fame. Questa situazione sta aumentando la disperazione creando le condizioni per coloro che trafficano gli esseri umani. La situazione più critica è quella dei bambini e delle bambine».
Gli italiani nell’area
Sabato il primo ministro Giuseppe Conte ha telefonato al collega etiope Abiy per parlare dal conflitto. Mentre l’azienda tessile Calzedonia ha dichiarato che non appena possibile la Farnesina evacuerà i sei italiani che lavorano nello stabilimento di Makallé.
DA SAPERE L’altra strage del 1998
Etiopia ed Eritrea si sono combattute per oltre 40 anni, prima per l’indipendenza eritrea (1974-1991), poi per l’irredentismo frontaliero. Gli anni ’90 furono l’epoca degli scontri di confine, soprattutto intorno a Bademé. Nel 1998, fu nuovamente guerra, partita con un’offensiva etiope e finita in una vera e propria guerra di trincea. In teatro, tra il febbraio 1999 e il maggio del 2000, l’Etiopia ruppe il fronte nemico, espugnando la città di Barentù. Gli eritrei batterono in ritirata. Accettarono le proposte dell’Unione Africana. Era il 22 maggio 2000. La guerra fu una carneficina: 70mila i morti. E fu un’altra guerra senza immagini e senza numeri certi. La pace fu firmata ad Algeri, nel dicembre successivo. La commissione sulle frontiere, decise nel 2002 di assegnare all’Eritrea Bademé. L’Etiopia si oppose. La svolta solo nel 2018, con la deci-sione del premier etio-pe (poi Nobel), Abiy Ahmed, di ri-conoscere il traccia-to del 2002. (F.Pal.)