Membri della Carovana dei migranti in un centro di raccolta nella Baja California (Messico) (Ansa)
«Nessuno entrerà, non permetteremo a nessuno di entrare». Finora Donald Trump è riuscito a mantenere la promessa fatta alla vigilia delle elezioni politiche di metà mandato di fronte all’imminente «invasione», come l’ha chiamata, di immigrati centroamericani.
Ma la pressione dei profughi al confine meridionale Usa cresce di ora in ora e potrebbe portare a scontri con i militari americani schierati alla frontiera o con la polizia messicana.
L’avanguardia della carovana partita dall’Honduras a metà ottobre ha infatti raggiunto la frontiera fra Messico e California. Sono oltre duemila e presto diventeranno almeno tre volte tanti. E, stando alle testimonianze dei volontari che li seguono e dei centri di accoglienza, spesso cattolici, che li aiutano, tutte le oltre 10mila persone (17mila secondo alcune stime) in movimento verso gli Stati Uniti sono determinate a raggiungere il loro obiettivo.
La loro disperazione appare più forte delle politiche di dissuasione del capo della Casa Bianca. «Non tornerò indietro, non posso tornare indietro, non ho nemmeno pensato a che cosa farò se non mi lasciano entrare», spiega Alejandro Martinez, ospitato alla Casa del migrante dei padri scalabriniani di Tijuana. Il giovane, che ha camminato dieci ore al giorno per centinaia di chilometri, prima di ottenere un passaggio su un camion per gli ultimi trecento chilometri. È disposto a tutto, dice «pur di non tornare nell’inferno da cui vengo».
«Il 65% sono donne e bambini», ha raccontato al Sir José Carlos Yee Quintero, coordinatore dei programmi della casa, diretta da padre Patrick Murphy. A Tijuana sono presenti già 2.500 migranti che stanno aspettando una risposta alla loro domanda d’asilo negli Stati Uniti. A questi se ne sono aggiunti 1.600 negli ultimi giorni. Molti rischiano di cadere vittime dei feroci cartelli del crimine organizzato che controllano le frontiere. Le nuove regole introdotte per decreto da Trump impongono infatti a chi vuole chiedere asilo negli Stati Uniti di presentarsi a un posto di frontiera ufficiale, senza tentare di entrare di nascosto negli Stati Uniti, pena la perdita di ogni diritto presso le autorità americane. Quindi di attendere fuori dagli Stati Uniti il verdetto dell’agenzia per l’immigrazione, che può impiegare mesi per arrivare.
Questo impone necessariamente una lunga permanenza in Messico, dove le amministrazioni locali e parte della popolazione cominciano a mostrare segni di insofferenza. «Tijuana è in una situazione difficile», ha detto Juan Manuel Gastelum, sindaco della città che si trova a 27 chilometri da San Diego in California. Le autorità federali messicane sono più concilianti. «Siamo molto preoccupati per eventuali incidenti al confine», ha detto il ministro dell’Interno, Alfonso Navarrete, dicendosi pronto ad offrire 10mila posti di lavoro a tempo determinato agli immigranti per evitare un assalto al confine, sorvegliato da migliaia di soldati statunitensi.
Dei 15mila soldati promessi da Trump per «fermare l’orda», come ha detto, ne sono stati dispiegati 5.700, ben più della presenza Usa in Iraq. La maggior parte sono schierati nel sud del Texas. Circa 1.500 sono in Arizona e 1.300 in California. Le immagini televisive li hanno mostrati impegnati a sistemare filo spinato, barriere e transenne lungo la frontiera. I militari, ha precisato Donald Trump, resteranno sul posto «per tutto il tempo necessario». La forte militarizzazione della zona non ha impedito a una ventina di giovani centroamericano di scalare la barriera metallica che funge da divisorio fra i due Paesi. La maggior parte sono stati arrestati ma non si sono registrati scontri.
Il Pentagono, che ha accettato con riluttanza di inviare personale negli Stati meridionali a svolgere compiti più di ordine pubblico che di sicurezza nazionale, ha dato ordine ai soldati di agire con la massima prudenza nei confronti degli immigrati, per evitare possibili ricadute legali. E i vertici del ministero della Difesa statunitense hanno già chiarito che non aumenteranno ulteriormente la presenza di truppe al confine.
I membri di una seconda carovana di honduregni continuano intanto ad arrivare a Città del Messico, dove circa 1.200 persone hanno ottenuto rifugio in uno stadio nella parte orientale della capitale. Altri duemila emigranti, per lo più provenienti da El Salvador, hanno lasciato lo Stato messicano orientale di Veracruz, diretti a Puebla. Molti di loro stanno fuggendo dalla violenza dell’Honduras, un Paese che nel 2017 ha registrato un tasso di omicidi di 43,6 uccisioni ogni 100mila persone, uno dei tassi più alti del mondo.