Una scia di attacchi xenofobi soprattutto contro gli anziani delle comunità asiatico-americane sta destando forte preoccupazione negli Stati Uniti. Nelle settimane che hanno preceduto la celebrazione del Capodanno lunare cinese, alcuni episodi hanno sconvolto la Bay Area dove un uomo di 84 anni, di origini thailandesi, è morto a fine gennaio, dopo essere stato aggredito a San Francisco durante la sua passeggiata mattutina. Un attacco immotivato registrato da una videocamera di sorveglianza, le cui immagini hanno scioccato la cittadinanza. La sindaca di San Francisco, London Breed, subito dopo il primo incidente ha espresso la sua solidarietà agli abitanti di Chinatown: «Non tolleriamo questi atti di violenza e razzismo – ha affermato –. Dobbiamo trattare gli anziani della nostra città come se fossero i nostri genitori o i nostri nonni».
La paura del Covid ha moltiplicato le aggressioni xenofobe: dall’inizio della pandemia fino a dicembre, in tutti gli Stati Uniti, sono stati censiti almeno 3mila casi. «Si tratta solo della punta dell’iceberg di un problema più vasto»
Alcuni giorni più tardi un uomo di 91 anni, anche lui di origini asiatiche, è stato spinto violentemente a terra da uno sconosciuto nella Chinatown di Oakland, città in cui si contano una ventina di aggressioni dall’inizio anno. In entrambi i casi i presunti responsabili sono stati arrestati. Questi sono solo alcuni degli attacchi più recenti di odio avvenuti sulla costa occidentale del Paese a cui purtroppo fanno eco tanti altri casi verificatesi nel corso del 2020 in tutto il Paese. La settimana scorsa l’Asian American Bar Association di New York ha pubblicato un rapporto, basato su dati forniti dal dipartimento di polizia della città, secondo cui da gennaio a novembre 2020 questo tipo di reati sarebbe aumentato di otto volte rispetto al 2019, in concomitanza con l’emergenza Covid-19. A parere di molti, sia esperti che comuni cittadini, ad inasprire il fenomeno sarebbe stata la retorica xenofoba usata per mesi dall’ex presidente Trump che spesso riferendosi al Covid-19 lo ha chiamato provocatoriamente “China virus” o “Kung Flu” (l’influenza Kung), creando le premesse per una vera e propria caccia all’untore.
Anche per questo motivo l’organizzazione Stop Asian American Pacific Islanders Hate a partire da marzo 2020, dopo avere rilevato che il fenomeno era in crescita mentre il virus si diffondeva nel Paese, ha cominciato a raccogliere dati circa episodi di razzismo, odio e discriminazione, arrivando ad un totale di 3mila i casi dall’inizio della pandemia fino a dicembre in tutti gli Stati Uniti. Vengono denunciati molti attacchi verbali, ma anche aggressioni fisiche, in alcuni casi l’aggressore sputa o tossisce addosso a una persona asiatica, in altri casi si tratta di aggressioni violente. John C. Yang, direttore esecutivo di Asian Americans Advancing Justice, fa sapere che «si tratta solo della punta dell’iceberg di un problema di proporzioni decisamente più ampie», spiegando che non tutti denunciano.
Da che è scoppiata la pandemia sono in tanti a temere di diventare un target per via dei loro tratti somatici, un pericolo reale che sta mettendo in crisi molti cittadini americani di origini asiatiche o delle isole del Pacifico, riaprendo ferite mai sanate. Era la fine dell’Ottocento quando gli immigrati asiatici venivano chiamati “the yellow peril” (il pericolo giallo), ed era il 1882 quando il Congresso approvava The Chinese Exclusion Act, un provvedimento che limitava l’ingresso di questi immigrati per timore che sottraessero il lavoro ai bianchi. Un leitmotiv purtroppo senza tempo. Lo stesso presidente Biden, che ha definito il fenomeno «inaccettabile» ha voluto dare un segnale forte firmando il 26 gennaio un ordine esecutivo a tutela della comunità in questione. Mentre, la vicepresidente Kamala Harris in un tweet ha affermato: «Odio e violenza contro gli asiatico-americani e gli immigrati asiatici sono cresciuti in modo impressionante durante la pandemia. Dobbiamo continuare a impegnarci per combattere razzismo e discriminazione».