giovedì 21 dicembre 2023
Alle Nazioni Unite cresce il dibattito sulla mancanza di una legislazione internazionale sui danni alle abitazioni provocati deliberatamente nei conflitti
Gli edifici devastati dalle bombe nel nord della Striscia di Gaza

Gli edifici devastati dalle bombe nel nord della Striscia di Gaza - Reuters

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Case sventrate dalle bombe: per gli occhi sono solo macerie, per il cuore di chi le abitava sono la tomba in cui seppellire ricordi, sogni e paure. La vita. È la disperazione raccontata per immagini dai reportage di guerra che continuano ad arrivare da Gaza. Uno spaccato del dolore e della violenza sofferta dalla popolazione civile a cui corrisponde una parola moderna, domicidio, che deriva dal latino “domus”, che significa casa, e “cide”, che significa uccisione deliberata. Alle Nazioni Unite discutono la necessità di classificare il domicidio di massa come un crimine contro l’umanità.
Le case non sono semplici immobili. Sono il luogo in cui nasce, cresce e si forma il senso di appartenenza e l’identità delle persone che le abitano. Distruggerle senza pietà equivale a offenderne la dignità. Gli accademici ne discutono dai primi anni 2000 ma è solo negli ultimi tempi che il concetto è entrato a far parte del dibattito pubblico. Facilitato dall’orrore dell’abbattimento indiscriminato di abitazioni visto ad Aleppo durante la guerra civile siriana, dallo spianamento degli insediamenti Rohingya in Myanmar, dalla distruzione di Mariupol in Ucraina. Gli addetti ai lavori sottolineano che c’è un legame diretto tra genocidio e domicidio. Il primo si riferisce all’intenzionale uccisione di massa delle persone, il secondo alla cancellazione, altrettanto deliberata, della loro cultura. È questo il motivo per cui secondo le Nazioni Unite il domicidio dovrebbe essere riconosciuto come un crimine contro l’umanità. Perseguibile ai sensi del diritto internazionale proprio come l’uso sistematico degli stupri e della tortura. Secondo Balakrishnan Rajagopal, relatore speciale dell’Onu per il diritto alla casa, la distruzione premeditata delle abitazioni rappresenta una «lacuna rilevante» che va colmata. La protezione dei civili e delle loro case è infatti coperta dallo statuto di Roma, il trattato istitutivo della Corte penale internazionale, che definisce i crimini di guerra rilevati nelle ostilità tra Stati. Non è invece contemplata tra i reati universali a cui ci si appella durante crisi non armate o in conflitti che coinvolgono attori non statali. Per Israele, lo ricordiamo, lo Stato di Palestina non esiste. I ricercatori della City University di New York e dell’Oregon State University hanno cercato di quantificare la portata della distruzione causata a Gaza dagli attacchi israeliani utilizzando dati e immagini del satellite Sentinel-1. Secondo le loro rilevazioni la percentuale dei palazzi rasi al suolo o gravemente danneggiati è compresa tra il 47% e il 59%. Perlo Stato ebraico si tratta di un’operazione necessaria a sradicare la rete terroristica di Hamas. Per altri l’obiettivo non dichiarato è rendere i territori inabitabili costringendo allo sfollamento quasi due milioni di persone. Ognuno con il proprio carico di dolore, tristezza e paura. È davvero domicidio? Al Palazzo di Vetro sperano che questo reato possa essere inserito all’interno del nuovo trattato sui crimini contro l’umanità a cui sta lavorando la Sesta Commissione Onu. Potrebbero volerci anni prima che venga approvato. Solo allora la comunità internazionale avrà gli strumenti legali per verificarlo e punirlo. Per il momento resta un termine nuovo a raccontare un orrore antico: la guerra.

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