Un gruppo di "schiavi dell'oppio" su una spianata di Kabul - Foto di Lucia Capuzzi
Sotto il ponte Pol-e-Sokhta, il letto del fiume Kabul è quasi secco. Dopo la prolungata siccità, le piogge dell’ultimo inverno non sono state sufficienti a riempirlo. Non manca, però, solo l’acqua. Anche del popolo dai corpi emaciati, gli occhi infossati e lo sguardo assente non c’è traccia. A febbraio, il governo taleban ha deciso di “ripulire” la zona dalle migliaia di tossicodipendenti che si ammassavano fra i ciottoli e le pozzanghere da ben prima dell’instaurazione dell’Emirato, il 15 agosto 2021. «Vi portiamo a disintossicarvi», ripetevano ai malcapitati le squadre degli studenti coranici mandate a “caccia”.
In dodicimila, così, sono stati rinchiusi in una decina di centri pubblici con una capienza massima totale di non più di 2mila posti. Ammassati gli uni sugli altri, sieropositivi inclusi, hanno trascorso 45 giorni di internamento forzato. Periodo prolungabile a discrezione del medico. Cinque mesi dopo la maxi-campagna, non si sa quanti siano stati recuperati o quanti si trovino ancora là o quanti si siano “persi” per strada, deceduti durante il trattamento. Dal ponte di Pol-e-Sokhta, però, sono andati via. «Non si vedono più a colpo d’occhio», afferma Ata-u-Rahman Hamid, responsabile di “The Bridge“, coraggiosa associazione afghana che, da sette anni, nonostante la guerra e il cambio di regime, dà assistenza alle vittime degli stupefacenti. «La città, però – aggiunge –, continua ad essere piena di tossicomani».
È sufficiente sapere dove guardare. E come farlo. Perché nella Kabul ai tempi dell’Emirato non tutto ciò che si vede è reale. Né gran parte della realtà è visibile. Sotto la capitale in bella mostra sulle alture dell’Hindukush ne scorre un’altra, evanescente e tangibile, al contempo. “Underground Kabul” o, meglio, “Payinish Kabul”, come si dice in dari, la lingua più diffusa.
La droga resta un’emergenza nazionale nel principale produttore mondiale d’oppio ma è sprofondata nella “Kabul segreta”.
Il prodotto abbonda ed è a buon prezzo: una dose costa tre dollari, l’eroina e la “shisha”, metanfetamina, poco di più. La violenza di 45 anni di conflitto e la disperazione per la terribile situazione economica sono, poi, spinte potenti al consumo, che riguarda quattro milioni di persone, un decimo della popolazione, quasi il doppio della media mondiale. Uomini in gran parte ma anche e sempre più donne, a causa delle crescenti difficoltà.
Completamente avvolta in un burqa celeste e lacero, la ragazza avanza lungo un fianco di “Tape Maranjan”, la collina alla periferia est di Kabul, dove, nel VI secolo d.C. sorgeva un maestoso monastero buddista. Ora la zona è un alveare di casupole popolari divise da una strada mal asfaltata che sbuca in un grande sterrato. Mentre la donna lo attraversa, i bordi della stoffa azzurra si imbrattano di polvere e si impigliano nella sterpaglia. I suoi piedi, però, procedono sicuri verso l’avvallamento nascosto da un piccolo rilievo. «Là ci sono le “grotte”», dice Ata mentre la segue. Appena le raggiunge, uno dopo l’altro, da una sorta di anfratti, vengono fuori gli scampati alla “pulizia” dei taleban. Con il volto scolpito dalle rughe, sembrano tutti anziani ma alcuni hanno meno di trent’anni.
Ata e la squadra di mediatori di "The Bridge" distribuiscono i kit igienici. «Si nascondono in posti del genere per sfuggire ai taleban. Ce ne sono tantissimi come queto, un’ottantina: cercano di stare dispersi per non farsi notare. E si spostano di continuo. Anche noi facciamo fatica a localizzarli. Ci affidiamo al passaparola, grazie alla fiducia della comunità», sottolinea Ata. La ragazza gli si accosta e tira fuori dal burqa una mano ossuta, dipinta di “hennè”, come si usa tra le pashtun. Poi, subito, si allontana. «Per le donne è ancora più difficile. Gli stessi dipendenti le emarginano. Ma sono sempre di più a causa delle crescenti difficoltà».
Le stime del ministero della Salute parlano di un milione di dipendenti di genere femminile, un quarto del totale, oltre il doppio rispetto a una decina di anni fa. I baby-consumatori sono 100mila. Il ragazzino che vigila sulla spianata, però, non è uno di loro. «È uno degli spacciatori al soldo delle mafie».
Le mafie, un altro attore della “Payinish Kabul”. Nell’aprile di un anno fa, il leader supremo, l’emiro Haibatullah Akundzada, ha vietato le coltivazioni di oppio. I taleban lo avevano già fatto nel primo regime, tra il 1996 e il 2001, salvo poi finanziare i vent’anni di guerra contro le forze occidentali con le “tasse” imposte sui papaveri nelle zone occupate.
Stavolta sembra differente. Dopo la moratoria per il raccolto del 2022, proprio in questi mesi, le pattuglie taleban sono sguinzagliate nelle province “sensibili” – Helmand, Kandahar e Nangarhar – per sradicare l’oppio. Le immagini satellitari fatte dalla britannica Alcis mostrano una riduzione significativa: si ipotizza un taglio della produzione del 20 per cento. Il che implicherebbe un aumento del prezzo, non immediato, però, date le scorte esistenti. Non è detto, però, che il consumo interno cali: l’oppio potrebbe essere semplicemente sostituito da droghe sintetiche. Anche perché, in assenza di una politica efficace di sostituzione delle coltivazioni, di certo la povertà, già spaventosa, aumenterà ancora. E con essa l’angoscia.
Un fumatore di droga - Foto di Lucia Capuzzi
«Ho avuto spesso la tentazione, è così difficile». Hanoush, lo chiameremo così, vive da sempre sulla soglia della “Payinish Kabul”. Durante la Repubblica, l’omosessualità era formalmente vietata: i trans come lui, però, si esibivano nei locali costosi del centro. Dal ritorno dei taleban, ha dovuto letteralmente inabissarsi, come oltre l’80 per cento delle 15mila persone appartenenti alla comunità Lgbt che non sono riuscite a fuggire. «La mia famiglia mi ha costretto a sposarmi per avere una copertura. Solo qui qualche volta riesco ad essere me stesso», racconta nell’appartamento in affitto dove si trova di tanto in tanto con tre amici d’un tempo per ballare e cantare in abiti femminili.
Il venerdì il quartiere, in piena area commerciale, si spopola. «Veniamo separati, per essere meno visibili. Da una parte non riesco a farne a meno, dall’altra ho sempre paura, vivo nel terrore», dice Hanoush, più volte minacciato dai taleban. Da gennaio, ha perso tre amici, assassinati per strada, spesso dopo essere seviziati. «Esecuzioni extragiudiziali formalmente archiviate come episodi di criminalità in modo da evitare il clamore di condannare a morte un omosessuale», sottolinea.
Paynish Kabul, però, non è solo la patria di quanti non trovano posto nell’Emirato. Un po’ tutti sono costretti a fare su e giù tra le due città per sopravvivere. Nonostante il bando della musica, gli automobilisti spengono la radio solo di fronte ai check-point. Alle feste di fidanzamento e matrimonio – rigorosamente separate per genere -, i mariti vengono portati di soppiatto nella sala riservata alle donne, almeno per un ballo, anch’esso comunque vietato. Difficile pensare che le autorità non se ne accorgano: sanno di non poter controllare tutto e, forse, non vogliono nemmeno farlo per non esasperare ulteriormente la popolazione. “Paynish Kabul”, in fondo, è una zona grigia che il sistema consente fino a quando sente di averne in qualche modo necessità. Un tempo estremamente variabile. E impossibile da prevedere.
Per 18 mesi, un telo di gomma nero è stato sufficiente per separare “H” da Shahr Now, il quartiere delle istituzioni. Al centro c’era un buco, appena sufficiente per infilare la testa. Di fronte, una tenda di stoffa presidiata da una guardia taleban, pronta a sbarrare il passo agli accompagnatori di genere maschile. «Solo donne», tuonava, spingendo lievemente le clienti del salone di bellezza più caro e rinomato della capitale. All’interno, i capelli – anche delle impiegate – fluivano liberi e la musica era costante. Il ritrovo dell’esigua ma facoltosa alta borghesia di Kabul aveva chiuso come gli altri centri estetici all’indomani del 15 agosto 2021 per poi riaprire poco dopo. Un corpo curato, da mostrare almeno dentro le pareti domestiche, è una tradizione. I taleban lo sanno. Da martedì, però, “H” ha chiuso i battenti – come tutti i saloni del Paese - per ordine dell’emiro in persona, ha spiegato il governo. “Paynish Kabul” è una patria precaria.