Una ragazza al lavoro nell'ufficio della municipalità di Raqqa (Cristian Gennari)
Ibin abitava in un villaggio alla periferia di Kobane, la città simbolo della resistenza curda al Daesh. Qui si addestravano le donne soldato, ma l’immagine di assoluta parità ed emancipazione femminile, non vale sempre fra le mura domestiche. Il caso che ha scosso tutto il distretto, e forse provocato una svolta, è quello di Ibin Kassim, giovane uccisa il 27 febbraio del 2018 «perché giudicata troppo libera» dal marito che ha poi tentato di simulare un incidente. «Benché sia stato perdonato dalla famiglia della moglie ora dovrà scontare 5 anni di carcere», spiega Shirin Muslim, amministratrice di “Sarah”, l’associazione per sostenere la condizione femminile che dal 2015 ha una sede a Kobane.
Grazie a “Sarah”, infatti, i parenti della vittima hanno aperto una azione legale conclusa con la condanna dell’uxoricida. Ragioni sociali ed economiche, per una piaga da combattere: «Ogni mese ci vengono segnalati una decina di casi di violenze; gli anni precedenti erano circa il doppio». All’origine spesso matrimoni forzati e l’assoluta dipendenza economica. La Casa delle donne di Kobane è diventato un punto di riferimento per «dare informazione alle donne sui loro diritti o sostegno psicologico a chi ha una grave difficoltà», afferma Shirin Muslim. Fra di loro anche alcune ex donne soldato dell’Ypj che adesso devono curare i traumi della guerra. Con il sostegno di Focsiv è già stato organizzato un laboratorio tessile per tappeti che ha la funzione di sostegno psicologico. Sono appena iniziati pure dei corsi di alfabetizzazione e di informatica: una formazione di base che offrirà, a circa 150 donne, una importante occasione di socializzazione.