venerdì 5 aprile 2024
Il gabinetto di guerra ha autorizzato «temporaneamente» la consegna dei soccorsi attraverso il valico settentrionale di Erez e il porto di Ashdod, che si trova 30 km a nord dell'enclave
Camion ai cancelli d'ingresso del porto di Ashdod, nel sud di Israele

Camion ai cancelli d'ingresso del porto di Ashdod, nel sud di Israele - Ansa

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La misura era già praticamente colma. Da mesi, le Agenzie Onu e le organizzazioni umanitarie denunciavano la «carestia incombente» nella Striscia per la mancanza di aiuti, trattenuti sistematicamente dall’esercito di Tel Aviv – Tsahal dall’acronimo – che presidia l’enclave. Nelle ultime settimane, anche i settori progressisti della società israeliana hanno preso una posizione via via più forte con lettere aperte, manifestazioni, iniziative di solidarietà. È stata, però, l’uccisione, lunedì, di sette operatori di World central kitchen (Wck) la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Costringendo il premier Benjamin Netanyahu a cedere di fronte all’aut-aut dell’alleato Joe Biden. Nella notte tra giovedì e ieri, il gabinetto di guerra ha autorizzato «temporaneamente» la consegna dei soccorsi attraverso il valico di Erez, distrutto da Hamas il 7 ottobre e, da allora, inattivo. Nonché mediante il porto di Ashdod, a una trentina di chilometri dal confine settentrionale dell’enclave, in modo da incrementare l’arrivo di cibo e medicine dalla Giordania. Se tutta Gaza è in emergenza, il nord – invaso e trasformato in campo di battaglia – è in condizioni catastrofiche. Secondo l’Onu, 210mila dei 300mila abitanti rimasti dopo lo sfollamento di massa verso il sud, sono alla fame.

Raggiungerli, però, è diventata una corsa a ostacoli. Letale, spesso, come dimostra il caso Wck. Dal 21 ottobre, quando è passato il primo convoglio, dopo due settimane di conflitto, gli unici due accessi sono nel sud: Rafah, al confine egiziano, e Kerem Shalom, dalla parte israeliana. Tra rischi, assalti, blocchi e infrastruttura distrutta, solo pochissimi dei già pochi camion entrati riescono a procedere dall’interno verso nord. Nelle prime due settimane di marzo, solo 11 dei 24 che si erano messi in viaggio sono giunti a destinazione. Lo scenario è ulteriormente peggiorato dal 25 marzo quando Tel Aviv ha bloccato la distribuzione da parte dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), accusata di legami con Hamas. Era quest’ultima rifornire il nord il 50 per cento del cibo. Da allora, Wfc aveva assunto un ruolo cruciale. Finito tragicamente sei giorni fa, quando tre razzi israeliani hanno colpito altrettanti suoi veicoli. «Un gravissimo errore» dovuto a una serie di falle nella catena di comando per cui l’esercito avrebbe creduto alla presenza di Hamas nei veicoli, è la spiegazione ufficiale arrivata ieri in seguito all'indagine interna delle forze armate. Addirittura, un borsone sarebbe stato confuso con delle armi. Tsahal, inoltre, ha confermato la ricostruzione del quotidiano Haaret: i tre mezzi sono stati centrati a una manciata di minuti di distanza l’uno dall’altro. Tempo in cui gli operatori superstiti hanno cercato di rifugiarsi nelle altre auto. Invano.

«Per la gestione contraria allo standard», il capo di Stato maggiore Herzi Halevi ha silurato i due ufficiali responsabili, scatenando l’ira del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir. Una “pezza” che non risolve il problema per cui occorre un «cambiamento sistemico», ha risposto Wck che ha chiesto «un’indagine indipendente». L’Ong, comunque, ha confermato il ritiro, annunciato il giorno dell’attacco. Anera l’ha seguita e Project Hope ha preso una “pausa”. In questo contesto, il via libera a due passaggi aggiuntivi – Erez e Ashdod – è stato accolto con favore ma anche estrema cautela anche perché Israele non ha dato un termine per la riapertura, oltretutto «provvisoria». Se il segretario generale Onu, António Guterres, ha chiesto passi «reali» e ha invocato, di nuovo, un cessate il fuoco umanitario, e l’Europa è apparsa scettica, il presidente americano Joe Biden ha dichiarato: «Israele sta facendo quello che ho chiesto sugli aiuti a Gaza». «Conteranno i fatti» aveva detto il segretario di Stato, Antony Blinken». «Sia nelle guerre precedenti che di fronte alle varie emergenze internazionali, Israele è sempre stata in prima linea nell’assistenza umanitaria. Privare i gazawi degli aiuti è contrario ai nostri valori», afferma Ronit Calderon-Margalit, direttrice della scuola di Salute pubblica di Hadassah-Hebrew University che, insieme alle colleghe Orly Manor e Ora Paltiel, due giorni fa, ha scritto un appello su Haaretz sulla necessità di farsi carico del dramma della Striscia. Per ragioni etiche ma anche per impedire il diffondersi di malattie.

«Anche il colpevole della catastrofe è Hamas per il massacro del 7 ottobre, l’essere al momento l’autorità de facto nell’enclave ci rende responsabili moralmente verso i civili, oltre che in diritto internazionale» aggiunge Ora Paltiel. Un punto quest’ultimo dolente nel giorno in cui il Consiglio Onu per i diritti umani ha approvato – con 28 voti a favore, 13 astensioni e sei no tra cui quello di Germania, Usa e Argentina una risoluzione in cui si chiede che Israele renda conto di possibili crimini di guerra commessi nella Striscia. Il testo condanna esplicitamente «la pratica di far patire la fame alla popolazione come arma» e domanda di interrompere le vendite d’armi a Tel Aviv. «Un documento anti-israeliano» che «non menziona Hamas nè i suoi crimini del 7 ottobre», ha tuonato l’ambasciatore, Merav Ilon Shahar, prima di abbandonare la sessione in segno di protesta. A sei mesi dall’inizio del conflitto, le scelte del governo Netanyahu hanno causato al Paese un crescente isolamento. E la retorica non sembra essere più sufficiente a placare la stanchezza degli israeliani.

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