Sull'isola di Gardi Sugdub, divorata dal mare, non c'è più spazio - Human Rights Watch
Gardi Sugdub annega. Il Mar dei Caraibi trangugia, un boccone alla volta, quest’isoletta grande quanto cinque campi da calcio con i suoi 1.300 abitanti, tutti indigeni del popolo Guna. Una parte di questi nativi del litorale settentrionale di Panama si rifugiarono là dopo la Scoperta-Conquista, quando gli europei invasero l’Istmo centramericano, per sfuggire a schiavitù, abusi e malattie importate. E là, in questo frammento di un arcipelago di 350 isolette di fronte a Gunayala, la costa dei Guna, sono riusciti a difendere la propria autonomia e stile di vita. Fino ad ora. La nuova minaccia non viene dall’esterno bensì da quello stesso oceano che per secoli ha alimentato i Guna: non a caso Gardi Sugdub vuol dire “isola del granchio”. Da alleato, ora, l’Atlantico è diventato avversario. Colpa del riscaldamento globale che provoca l’aumento del livello dei mari mettendo a rischio la sopravvivenza delle terre che galleggiano a pelo d’acqua.
Gardi Sugdub è una di queste: solo il suo cuore centrale ha un’altezza che sfiora a malapena il metro. Il resto non ha scampo. Anche stando alle previsioni più ottimistiche dell’Intergovernamental panel on climate change (Ipcc), secondo i dati del ministero dell’Ambiente di Panama, entro il 2050 questo tratto di Mar dei Caraibi crescerà di 0,27 metri. «I bambini non hanno luoghi dove giocare, non c’è posto per costruire altre case per i giovani che si sposano. Non abbiamo più spazio per vivere», dice Magdalena Martínez, 72 anni, nel rapporto-inchiesta appena pubblicato da Human Rights Watch (Hrw). La donna è stata fra le prime a dare vita già negli anni Novanta al Comitato di vicini che ha guidato la comunità verso una scelta dolorosa quanto inevitabile: il ricollocamento. Un’idea pioniera in America, dove Gardi Sugdub è tuttora il primo caso in fase di attuazione. La svolta è arrivata nel 2010 quando, anche grazie all’aiuto dell’Ong svizzera Dispacement solutions, i residenti hanno individuato e ripulito sulla terraferma di Gunayala un luogo adatto, donato loro da altri nativi Guna. Negli anni successivi, grazie a un accordo con il governo, quest’ultimo si è impegnato a costruire un ospedale, una scuola e 300 abitazioni e a fornire le infrastrutture di base – acqua potabile, sistema fornario, rete elettrico – per favorire il trasferimento. Isperyala, la valle dei nespoli, così si chiama la “nuova casa” degli abitanti di Gardi Sugdub sarebbe dovuta essere inaugurata il 25 settembre. Ma non accadrà. I ritardi sono evidenti: la clinica e l’edificio scolastico che dovevano essere attivi dal 2014 sono ancora a metà.
Il resto non va molto meglio. A questo ritmo, la nuova data, prevista dall’esecutivo per il febbraio 2024, difficilmente sarà rispettata.
Sull'isola vivono 1.300 indigeni Guna - Human Rights Watch
Nel frattempo, il mare continua a ingoiare brandelli di Gardi Sugdub. La scuola locale, con 653 studenti, è al massimo della propria capacità. E nemmeno i doppi turni risolvono il problema. Come ha documentato Hrw i ragazzi suppliscono alla mancanza di postazioni regolari, sistemandosi sul pavimento o sui cornicioni. In caso di forti venti o piogge, inoltre, le lezioni vengono sospese per il rischio di inondazioni. Le famiglie estese condividono le stesse dimore, spesso gli spazi vengono divisi con una tenda. L’affollamento fa sì che le malattie si propaghino velocemente. È stato così con il Covid e ora con la tubercolosi. Poi c’è la questione delle infezioni gastrointestinali dato che il mare, sempre più invasiva, si infiltra nei tubi idrici, rendendo l’acqua non potabile. I Guna di Gardi Sugdub, però, non cedono. In gioco non c’è solo il loro presente e futuro ma quello di centinaia di altre comunità nel mondo. Solo al largo della costa nord di Panama sono 38 le isolette, con una popolazione totale di 28mila persone, che rischiano di dovere traslocare. Per tutti, Gardi Sugdub può essere un modello. Se un esempio da seguire o un clamoroso un fallimento saranno i prossimi mesi a dirlo