giovedì 15 marzo 2018
Ma il Pakistan sembra avere dimenticato la domanda di grazia fatta dal marito nel 2016. Speranze, invece, per l'udienza alla Corte Suprema
Ashiq Masih e la figlia Eisham in visita ad «Avvenire» il 25 febbraio scorso

Ashiq Masih e la figlia Eisham in visita ad «Avvenire» il 25 febbraio scorso

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«Ora finalmente potrò pregare con il rosario donatomi dal Papa. Grazie per il vostro aiuto». Dopo 3.184 giorni in cella per presunto oltraggio alla fede islamica, la cattolica pachistana Asia Bibi ha ricevuto il permesso di tenere nel carcere di Multan il Rosario che papa Francesco le ha donato.

«È la prima volta in nove anni che mi consentono di tenere un cella un oggetto religioso» ha detto la donna incontrando il 12 marzo il marito Ashiq e la figlia Eisham di ritorno dal viaggio in Italia con Aiuto alla Chiesa che Soffre, durante il quale erano stati ricevuti in udienza privata da papa Francesco. In quell'occasione il Pontefice aveva consegnato ai familiari quel dono per Asia Bibi, assicurando che avrebbe pregato per lei. «Ricevo questo dono con devozione e gratitudine - ha detto Asia - Questo rosario sarà per me di grande consolazione, così come mi conforta sapere che il Santo Padre prega per me e pensa a me in queste difficili condizioni». Lo rende noto un comunicato di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). Nella stessa occasione, il 25 febbraio, il marito e la figlia Eisham di Asia Bibi erano stati ospiti di Avvenire a Roma.

La figlia e il marito hanno inoltre raccontato ad Asia della serata del 24 febbraio, quando ACS ha illuminato di rosso il Colosseo in memoria dei martiri cristiani e l’ha ricordata in particolar modo attraverso la testimonianza dei suoi cari. «L’attenzione internazionale sul mio caso è fondamentale per me. È infatti per merito di questa se sono ancora viva. Grazie ACS per tutto quello che fate, non soltanto per me, ma per tutte le altre vittime della legge antiblasfemia, il cui abuso colpisce soprattutto le minoranze religiose».

Il Pakistan «dimentica» la grazia per Asia Bibi

Intanto sembra farsi sempre più in salita la strada verso la liberazione. A segnalare come un provvedimento di clemenza, chiesto al presidente Mamnoon Hussain due anni fa, sia di difficile attuazione è il legale musulmano Saif-ul-Malook, a capo del collegio di difesa della donna che attende nel carcere femminile di Multan che la Corte Suprema si esprima sulla correttezza dell’iter processuale che ha portato alla sua condanna a morte.

Nel 2016, il marito di Asia Bibi, Ashiq Masih, aveva inviato al presidente una lettera in cui chiedeva un provvedimento di grazia per la moglie e anche il permesso per il suo espatrio in Francia dove si erano dichiarati disponibili a ospitare la famiglia. Nei giorni scorsi, in un’intervista alla rete televisiva tedesca Deutsche Welle, Malook ha confermato che la sua assistita, per altre fonti in non buone condizioni di salute e prostrata dall’esperienza del carcere e dalla separazione dalla famiglia, sia invece «trattata bene» e «non abbia particolari lamentale verso le guardie carcerarie, tutte donne». A smorzare ulteriormente la speranza in una soluzione in tempi brevi della vicenda, Malook ha risposto in modo sostanzialmente negativo sulla possibilità di un intervento presidenziale.

«L’opposizione di una larga parte della società pachistana è talmente forte che non ritengo possa esserci una reale possibilità per Asia Bibi. Secondo la Costituzione, il presidente agisce su consiglio del primo ministro e non credo che qualunque leader politico in Pakistan possa ora permettersi di avanzare una simile richiesta». L’avvocato si è però detto speranzoso che i giudici convochino al più presto l’udienza definitiva, anche se da tempo – ha chiarito – è apparso con chiarezza che il caso di Asia Bibi non è prioritario per la Corte Suprema. Una situazione che mette ancor più in difficoltà le autorità di Islamabad, peraltro finito sotto la lente dell’Unione Europea, che recentemente ha avvertito che il rinnovo in corso di importanti accordi commerciali con il Paese asiatico dipenderà proprio dalla scarcerazione della donna.

Monsignor Benny Travas, vescovo di Multan, città dove è imprigionata Asia, incontrerà invece oggi in Vaticano papa Francesco con altri vescovi pachistani in vista ad limina apostolorum. Il prelato segnalerà nell’occasione ancora una volta la delicatezza del «caso di Asia Bibi e l’impossibilità di farle arrivare l’eucaristia», come pure di consentire a sacerdoti di farle visita. «Solo cristiane impiegate nel carcere – ricorda – a volte riescono a parlarle, dandole un po’ di calore umano e di partecipazione spirituale».

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