domenica 11 agosto 2019
Milioni di ragazzi contestano i troppi divari del paradiso superliberista. L’isola è l’emblema della globalizzazione che però mostra segni di crisi delle stesse dinamiche internazionali
Le proteste a Hong Kong: occupato l'aeroporto (Ansa)

Le proteste a Hong Kong: occupato l'aeroporto (Ansa)

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Geograficamente Hong Kong ha una superficie di 1.104 chilometri quadrati, 7 milioni di abitanti. Le attuali proteste studentesche, allargatesi a tutta la società civile, hanno paralizzato una parte della grande metropoli, ma la città non è caduta nel caos. Proteste di milioni di persone che rivelano problemi molto più profondi delle richieste stesse dei vari movimenti.

L’ex colonia britannica, dopo 150 anni, fa parte a pieno titolo della Cina popolare dal 1997, con un particolare status giuridico definito come «Un Paese, due sistemi». Tutto ciò dovrebbe assicurare alla grande metropoli asiatica autonomia politica, economica e giudiziaria, fino al 2047. Questa speciale autonomia, accettata giuridicamente dalla Repubblica popolare cinese, include l’isola di Ko-loon, l’isola di Lantau e alcune piccole aree della terra ferma.

Hong Kong è una delle principali piazze finanziarie del mondo e, con particolari accorgimenti, il governo centrale di Pechino si è assicurato il consenso dell’élite economica, finanziaria e redditiera che beneficia del mantenimento dello status quo. La dinamica dei conflitti sociali e culturali ha caratterizzato la stessa storia contemporanea cinese con una forza tale che, l’evoluzione di quel grande continente, è segnata da questa “regolarità” sociale.

Hong Kong è oggi uno dei punti alti della globalizzazione economica. Insomma la metropoli asiatica definisce quella materiale concretizzazione di concentrazione finanziaria, tecnologica, commerciale che produce, contemporaneamente, nelle fasce sociali giovanili, come i movimenti studenteschi, disagi collettivi per la precarietà degli sbocchi professionali e per i forti pericoli di autoritarismo che recentemente hanno prodotto mobilitazioni di enorme diffusione. Si ricompongono così i movimenti dei giovani con quelli che sono sorti nelle realtà tecnologicamente più avanzate come anche tra i lavoratori dipendenti. Così una scintilla accesa a Hong Kong, potrebbe incendiare tutta la Cina con nuovi conflitti sociali. In che modo l’eredità del movimento degli ombrelli del 2014, ha plasmato le attuali proteste?


Sono soprattutto le fesce giovanili a risentire della precarietà prodotta dalla concentrazione finanziaria e tecnologica

Quali le prospettive per il futuro dei movimenti democratici di Hong Kong e della Cina? Qui dobbiamo capire che quel movimento studentesco “degli ombrelli” aveva aperto una politica di richieste democratiche, formando una sorta di ricomposizione sociale, mostrando una nuova cultura antiautoritaria che, poi, in questi ultimi mesi, ha ripreso forza surclassando il precedente tipo di mobilitazione sia come quantità che come qualità di obiettivi di richiesta democratica e anche di richieste economiche.

Le attuali manifestazioni erano cominciate all’inizio del giugno scorso contro la legge proposta dalla governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, non sottomessa agli indirizzi di Pechino, ma ritenuta dagli studenti, al contrario, subalterna alla politica estera cinese. La legge contestata, per ora sospesa, avrebbe consentito l’estradizione degli abitanti della grande metropoli asiatica, per alcuni reati ritenuti, dai movimenti di protesta, troppo generici e quindi usabili facilmente per prendere esponenti critici della politica cinese e portarli in carcere nel grande continente. Insomma una legge speciale per reprimere il dissenso e orientare la libera democrazia di Hong Kong verso un sistema illiberale. Intanto le proteste proseguono.


La mobilitazione, contro una legge di estradizione definita «autoritaria»,
si è trasformata in una rivolta che mette
in discussione il sistema politico ed economico

C’è ancora un altro aspetto decisivo nella complicata dinamica conflittuale scaturita a Hong Kong. Circa il sessanta per cento del valore della Borsa di Hong Kong è controllato da imprese statali cinesi. L’ala progressista, dei differenti movimenti collettivi di contestazione, ha già scavalcato le semplici richieste liberaldemocratiche di sospensione della legge sulle estradizioni, arrivando alla critica della democrazia autoritaria di Carrie Lam e alla contestazione delle superconcentrazioni finanziarie. Insomma è sulla diseguaglianza sociale del paradiso del capitalismo superliberista asiatico che, ormai, si concentrano gli obiettivi che mobilitano milioni di giovani. Un anno e mezzo fa, del resto, fecero notizia gli scioperi dei portuali e degli spazzini di Hong Kong che per quaranta giorni, aiutati dagli studenti, occuparono il molo di Kwai Tsing. Quei lavoratori chiedevano aumenti salariali e sicurezza sul lavoro.

Le società che gestivano quello stesso molo minacciarono gli scioperanti che avrebbero trasferito tutte le loro attività portuali nella Cina continentale, come “Marchionne d’Oriente”. Ecco cos’è la Cina per i giovani di Hong Kong: il rischio di esternalizzare i conflitti, addormentandoli. Certamente il presidente cinese Xi Jinping e tutto il suo gruppo dirigente vissero o sono gli eredi dei “perseguitati” della rivoluzione culturale maoista degli anni Sessanta del secolo scorso. Essi ne temono, comprensibilmente, gli effetti di estrema violenza, settarismo ed inutili punizioni che scaturirono da quegli avvenimenti sociali, in modo tragico. Però in quegli stessi fenomeni di rivoluzione culturale, si individuarono processi di ricerca di egualitarismo nobile e diffusione di critica necessaria, di apertura verso i contadini poveri e il lavoro manuale non più ritenuto dannazione solo per i “servi”.


Forte la presenza
dei cristiani impegnati
nella leadership
del movimento


Non c’è poi tanta differenza dalle esigenze di radicale democratizzazione sostenute dai movimenti studenteschi e dai giovani lavoratori di Hong Kong oggi contro le realtà oligarchiche e capitalistiche della metropoli asiatica, come mostra il sociologo Alain Badiou nel suo libro La comune di Shangai (edizioni La Fabrique). Riflettendo ancora sulla presenza cristiana, numerosa e diffusa nelle leadership nei movimenti di lotta di Hong Kong, appare urgente rispondere alle richieste di elaborazione di quello che molti giovani cristiani impegnati chiamano «spiritualità della metropoli» per collocare tutte queste dinamiche in orizzonti di lungo periodo. Stiamo forse, cominciando a riscoprire, anche lì, nella metropoli asiatica, gli stili empatici delle tante comunità elettive che si formano durante i conflitti sociali e la crescita di solidarietà che li accompagna?

Le ultime ricerche del sociologo polacco Zygmunt Bauman, sono affermative. In questo contesto metropolitano così avanzato in Asia, noi cristiani non partiamo da zero. Nel secolo precedente, tra le tante questioni sociali emerse, vennero in evidenza una serie di processi di ricerca spirituale e religiosa, molto profondi. Sin da quegli anni Venti, differenti filoni di esperienze cristiane (protestanti, cattolici, ortodossi russi) si erano misurate attorno alle nuove realtà urbanistiche. La riscoperta della riflessione sulla Bibbia mostrarono l’importanza dell’opzione della testimonianza tra i poveri, di “quell’abbassamento” verso il lavoro manuale come maggiore unità nei conflitti sociali. Tutto ciò si collegava, culturalmente, all’antica conflittualità tra Servo e Signore intuita da san Paolo. Da Karl Barth al cardinal Newman, alle ulteriori riflessioni di Congar, Ratzinger, Moltman, di Nikita Struve e altri, viene formandosi una peculiare attenzione attorno alla vita di due straordinarie testimonianze: Teresina di Lisieux e Charles De Foucauld. Sono i temi innovativi della “piccolezza”, dei mezzi poveri, del «fare deserto nella metropoli».

Sociologo, dirige il Centro di Ricerche di psicologia politica e geopolitica dell’Università Europea di Roma

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