Percorsi di recupero per i giovani che scelgono la reclusione volontaria - ANSA
È un “esercito” silenzioso. E arroccato. Le trincee dietro le quali ha scelto di rifugiarsi sono solo apparentemente rassicuranti: le mura domestiche. Il mondo – con le sue sirene, i suoi pericoli, le sue paure ma anche i suoi allettamenti - resta tagliato fuori. Le definizioni che cercano di catturare la cifra esistenziale di questo “esercito” di ragazzi e giovani adulti – la reclusione, la diserzione dal mondo fisico, il distanziamento dal lavoro e dall’universo affettivo – sono tante: si va dai «reclusi in casa», agli «eremiti sociali» e agli «sdraiati» fino ad arrivare al termine coniato in Giappone a cui spetta la primogenitura nell’identificazione del fenomeno. «Hikikomori», letteralmente «ritirati in se stessi».
L’allarme, l’ultimo in ordine di tempo, arriva dal governo sudcoreano. Seul vuole mappare gli «adolescenti isolati e solitari». L’obiettivo è trasparente: strappare gli isolati dalla loro reclusione volontaria per restituirli alla vita attraverso forme di accompagnamento e di sostegno. L’indagine, come ha riportato il Korea Times, «durerà fino alla fine di luglio e mira a identificare quando inizia il periodo di isolamento, la sua durata e cosa lo ha innescato». Perché l’universo dei «reclusi in casa» è elusivo, ha contorni sfuggenti, difficili da identificare. Secondo uno studio pre-pandemico del 2019, condotto dal think tank governativo Korea Institute for Health and Social Affairs, circa il 3% della popolazione della Corea del Sud di età compresa tra 19 e 34 anni viveva in isolamento. Nel 2021 la stima è salita al 5%, ovvero 540.000 giovani coreani. In Giappone si stima addirittura che siano 1,46 milioni le persone in età lavorativa che scelgono di vivere come recluse. Il fenomeno sta tracimando anche al di fuori dall’Asia: in Italia, nonostante manchino dati ufficiali, si parla di 100mila «hikikomori».
La diserzione dal mondo può arrivare fino a forme estreme. Nel 2020, il tasso di mortalità per suicidio in Corea del Sud è stato il più alto tra i Paesi Ocse, con tassi particolarmente elevati tra i giovani. Tra il 2019 e il 2020, il tasso di suicidio tra gli adolescenti è aumentato del 9,4% e tra i ventenni del 12,8%. Secondo un’indagine condotta dal ministero della Sanità e del welfare di Seul, il 75,4 per cento dei reclusi di età compresa tra 19 e 39 anni, han affermato «di aver pensato al suicidio». La maggior parte degli intervistati, pari al 26,3%, ha dichiarato di essere rimasto in uno stato di solitudine da uno a tre anni, mentre il 6,1% ha affermato di essere rimasto in uno stato di solitudine per oltre un decennio. Coloro che non sono nemmeno usciti dalla propria stanza rappresentavano il 5,7%. In termini di età, quelli tra i 25 e i 29 anni rappresentano la maggioranza con il 37%, seguiti da quelli tra i 30 e i 34 anni con il 32,4%.
Cosa spinge i giovani sudcoreani a sganciarsi dalla vita sociale, a scegliere una esistenza disincarnata nella quale il corpo «viene consunto, murato vivo, reso morto al legame», come ha scritto la psicoanalista Laura Pigozzi che ha studiato il fenomeno nelle sue diverse declinazioni? Difficile fornire una risposta univoca. Nella scelta dei reclusi c’è, come sottolineano gli esperti, una “risposta” radicale a una società ipercompetitiva, come quella coreana, «che pone aspettative eccessive sui ruoli sociali e sulle responsabilità degli individui». E nella quale l’obbligo della prestazione inizia prestissimo, già nei banchi di scuola, con i ragazzi costretti a studiare anche fino a 16 ore al giorno. «Una società della prestazione», secondo la definizione del filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-chul Han che conduce «all’epoca dell’esaurimento» nella quale «a essere sfruttata è la psiche». E dove, paradossalmente, la libertà arriva a essere libertà di non essere.