Il ragazzino a torso nudo si rivolge verso il fotografo con una serie di espressioni che lasciano immaginare le emozioni sperimentate. La sequenza di Kirkuk ci fa indovinare la scarica di adrenalina che ha percorso il suo coetaneo di Gazantep (se sarà confermata la prima versione turca sull’attentato di sabato sera) prima di farsi esplodere.
E ci fa venire in mente una domanda: come si convince un ragazzino a partecipare con tanto entusiasmo a una missione suicida? Qui non si tratta solo di ideologia pseudo-religiosa: c’è qualcosa di più terribile in quell’espressione. È l’espressione di un ragazzino che ha appena fatto qualcosa di grande, anche se a malapena se ne rende conto; è lo sguardo di un preadolescente che è stato preso sul serio dagli adulti al punto che l’hanno messo al centro di un progetto criminale. È lo sguardo di un giovanissimo che ha trovato sulla sua strada degli educatori che l’hanno fatto giocare a un gioco grande. Si può storcere il naso finché si vuole ma la parola “educazione” qui è perfettamente al suo posto; perché i terroristi islamici sono degli ottimi educatori allo sterminio. Hanno dalla loro parte la rozzezza estrema dei loro argomenti (“da questa parte noi, i puri; dall’altra tutti gli altri, gli infedeli”), la propaganda martellante, il fascino della battaglia, la chiarezza degli obiettivi (“ammazzane più che puoi”) e soprattutto la specificità del mezzi: “usa il tuo corpo per eliminare il nemico”. Questo è l’elemento di novità che costituisce il nucleo di una pedagogia del terrore; i ragazzini sentono che il loro corpo vale qualcosa, è al centro di un progetto, diventa apprezzato dagli adulti. Proprio quel corpo acerbo, ancora lontano dalla maturità adulta, finalmente viene preso sul serio. Il giovanissimo viene salutato come un eroe alla sua partenza per la missione, sa che verrà ricordato come un martire; sa che quel suo corpo andrà in pezzi ma soprattutto farà a pezzi tanti corpi altrui: come un eroe, come un combattente. Forse pensa al paradiso. Ma per questi ragazzini il paradiso è tutto nella missione suicida. Spesso si dice che le bombe umane svolgono il loro compito sperando in un posto nell’aldilà. Ma forse per questi ragazzi l’aldilà conta molto poco: a contare, ad essere significativo, è il tempo che passa tra la decisione del capo di mandarli in missione e l’attimo in cui tutto esplode. Quello è il tempo escatologico, quello il tempo della salvezza; e nell’età della preadolescenza, momento di passaggio per definizione, proprio il fatto di non arrivare ad essere adulti blocca l’immaginazione di questi ragazzini. Non c’è bisogno di crescere, sono già perfetto perché sono un martire; gli adulti rischiano di essere corrotti, io sarà perfetto per sempre. Facciamo scattare il detonatore. Forse il crimine più odioso dei terroristi è quello di avere rubato l’infanzia e l’adolescenza a questi bambini; non solo mandandoli a farsi esplodere, ma giocando con loro lo sporco gioco dell’educatore al terrore e all’assassinio. Tra le prime vittime del terrorismo c’è l’idea dell’educazione, l’immagine di adulto, la relazione educativa: gli occidentali hanno inventato l’orco, ma almeno quello i bambini li odiava e li mangiava. Gli orchi sotto forma di istruttori militari fingono di amarli e di apprezzarli e poi li usano per fare a pezzi altre persone. E loro stessi. È allora anche su questo piano che va combattuto il terrore. Speriamo che il ragazzino di Kirkuk trovi sulla sua strada un educatore alla vita; che gli insegni che è bello essere ragazzini, che è ancora più bello diventare adulti, che il mondo è molto più complesso e divertente di quanto gli è stato raccontato, che ci vuole più coraggio per stringere una mano che per far scattare un detonatore; e soprattutto che l’unica cosa che vale la pena di far saltare in aria è il castello di bugie che qualche istruttore, comprando il suo corpo e la sua anima, gli ha venduto facendo finta di amarlo.