Don Massimo Ryabukha - .
Il dilemma di un cristiano. Lo sgomento dell’essere umano. La disperazione della gente. E le strade deserte. I corpi sfregiati. Il dolore acuto, che lascia senza parole.
Maksym Ryabukha è un prete e dirige la casa salesiana di Kiev. Don Max, così lo chiamano tutti, in questi lunghi giorni di guerra ha sempre posto la speranza della vita di fronte alla morte. Nei suoi messaggi su WhatsApp sempre, anche nei momenti più bui, c’è stato spazio per qualcosa di bello, qualcosa di positivo. Fino a due domeniche fa, quando le prime immagini e notizie sul massacro di Bucha hanno iniziato a fare il giro del mondo. Qualcosa che ha messo a dura prova anche lui.
«Se ho visto quello che è accaduto? Lo vedo tutti i giorni. Perché qui ogni giorno, ormai, per noi è uno choc senza fine – racconta don Max –. Per la popolazione di Kiev è un dolore ancora più forte, perché molti degli abitanti dei centri satelliti della capitale venivano a lavorare in città. Nei sacchi neri di Bucha ci sono i loro parenti stretti, ci sono i loro amici. Ho parlato con alcuni di loro: tanti non riescono nemmeno a condividere quel dolore immenso, insopportabile. Rispondono con mezze frasi. Oppure abbassano gli occhi e non rispondono affatto. A volte nemmeno riescono a piangere. Le immagini di quei dei corpi martirizzati rimarranno nella vita di tutti noi».
Tutto quell’orrore sta mettendo alla prova anche un giovane salesiano di Kiev che fino ad oggi aveva cercato di guardare oltre la guerra. E che continua a sforzarsi di farlo. «Ma è difficile provare a capire chi ha fatto tutto questo. È difficile anche solo provare a pensare a quelle persone che hanno commesso degli atti così disumani».
Don Maksym si ferma. Riflette un attimo. «Come perdonare? Come ritenere queste persone esseri umani? Intendiamoci: siamo tutti umani, molto umani, con un bagaglio sia di virtù che di peccati. Ognuno ha il proprio passo, qualcuno corre, qualcuno indietreggia. Ma questa cosa, questi massacri...». Il periodo di Pasqua offre lo spazio a una riflessione: «Questa Quaresima e questa Settimana Santa resteranno per sempre nella memoria della mia generazione. Abbiamo vissuto queste settimane, dal 24 febbraio scorso, in modo del tutto diverso dal passato. Credo che la nostra sia un’epoca di grandi santi, di martiri coraggiosi, di testimoni imbattibili della bellezza che hanno toccato e sperimentato con la propria vita cosa questo vuole dire. Così voglio pensare ai miei concittadini. Non ho altra spiegazione e nemmeno giustificazione per quanto accade in questo tempo così doloroso».
Dolore e speranza, insieme. Vanno di pari passo con la realtà di ogni ora passata a Kiev, la città che resta il cuore di questo conflitto e che guarda con preoccupazione a Est, dove si è spostata la feroce offensiva di Mosca. La città sente e assorbe tutto. «Una di queste mattine sono andato dalla nostra casa alla stazione ferroviaria centrale – racconta ancora don Maksym – . Erano le sette del mattino. Normalmente a quell’ora la vita è già così intensa che sembra di essere a mezzogiorno. Anche in tempo di guerra. Quel giorno invece la città sembrava morta: nessuna persona per strada, quasi nessuna auto, molti semafori spenti. C’era l’odore della morte in giro. Un grande viale da qui alla stazione era costellato di buche di esplosioni e di macchie nere delle auto incendiate».
«Ho provato sgomento – dice il sacerdote –. Ho pensato che forse così si sentiva Gesù quando camminava verso Gerusalemme per la sua ultima Pasqua terrena. Quello che siamo vivendo in questo Paese è un dramma dell’umanità, ma ci vorrà il tempo per capirlo e farlo parte della storia di ciascuno di noi». La quotidianità si nutre di piccoli gesti, di piccole cose, ora diventate così preziose. Don Max fa da punto di riferimento per gli aiuti umanitari che vengono distribuiti nella capitale.
«Qualche giorno fa – racconta –, è arrivato un camion di aiuti che dovevo scaricare e mettere in oratorio. Abbiamo fatto tutto in fretta, perché i volontari dovevano ripartire subito verso Leopoli. Quindi sono arrivati quelli che dovevano prendere gli aiuti e portarli alla gente qui a Kiev: allora abbiano caricato le auto e chiesto notizie dei quartieri. Poi due cappellani militari e alcuni vicini sono venuti per lavarsi e cambiarsi. Per mangiare qualcosa insieme. Cose semplici. Ma che ci hanno dato il senso di essere ancora comunità». Per rispondere all’ultima domanda, la più difficile, don Max alza gli occhi al cielo.
«Cosa spero? Sogno la pace, sogno la vittoria, sogno una vita che sappia illuminare tutt’intorno. Sogno immensamente di rivedere gli occhi felici dei ragazzi dell’oratorio. Sogno la Resurrezione. Di Kiev, dell’Ucraina. Io ci credo».