Una discarica improvvisata a cielo aperto vicino alle abitazioni nella zona di sicurezza umanitaria di Deir al-Balah: vi si trovano anche carcasse di animali e rifiuti speciali - Cesvi
Frugare nell’immondizia e imbattersi in siringhe e sacche di sangue. È anche questa la quotidianità degli sfollati nell’area “umanitaria” della Striscia di Gaza. «Entro l’inizio del 2025 non ci sarà più spazio dove mettere i rifiuti. Si calcola che ce ne siano 600mila tonnellate, l’equivalente di 1.200 piscine olimpioniche» informa Marcelo Garcia della Costa, responsabile dell’unità per le emergenze del Cesvi, reduce da una settimana nell’enclave.
«Non ci sono più sistemi di gestione e smaltimento. Gli inceneritori sono stati distrutti. È stato chiesto a Israele di consentire l’ingresso di componenti per la costruzione di nuovi inceneritori. Invano. Ora si lavora a progetti per schiacciare i rifiuti e ridurli di volume. Attualmente vengono convogliati in 120 o 130 posti, situati lungo le strade nella zona tra Khan Yunis e Deir al-Balah, non lontano dalle tende. Nell’immondizia si trova di tutto, persino carcasse di animali. Ma la cosa più impressionante sono i rifiuti ospedalieri. Scene infernali».
Vivere tra discariche a cielo aperto aumenta il rischio igienico-sanitario, in una situazione già al limite. «Si muore di parto e praticamente tutti i bambini soffrono di diarrea. L’impatto è devastante. Faccio questo lavoro da 25 anni: Ucraina, Siria, Yemen, Afghanistan, Somalia. Una cosa del genere è senza precedenti. La gente è ammassata. Si stima che ci siano quattro persone per metro quadrato. Manca l’acqua potabile. Non ci sono i servizi igienici. Non c’è assistenza medica: sono tre o quattro gli ospedali funzionanti. Mentre eravamo lì, abbiamo sentito i bombardamenti su quello di al-Aqsa, a Deir al-Balah in piena area umanitaria. Nessuna zona è sicura».
Entrato dalla Giordania, attraverso Israele, Della Costa ha portato a termine la sua missione: trovare una base logistica per l’Ong, dove da fine novembre si turneranno ogni mese quattro cooperanti, due alla volta. La sede individuata è un edificio in muratura a Deir al-Balah. «Come gli altri, non ha energia elettrica né acqua corrente. Provvediamo con pannelli solari e acqua da cisterna. A Gaza anche noi ci lavavamo con acqua salata. Per bere ci eravamo portati pastiglie disinfettanti. E ci siamo cucinati pasta e caffè con acqua salina».
Paradossalmente, è l’acqua il bene che più manca agli attendati sulla riva del mare. «Abbiamo visitato gli accampamenti dove Cesvi distribuisce acqua potabile e kit per l’igiene personale. Forniamo 50mila litri al giorno a ogni campo. Lo standard internazionale minimo è di 15 litri per persona. Cerchiamo di garantirlo, ma reperire acqua potabile è difficile. Siamo vicini al mare, l’acqua di falda è salina e non si trova abbastanza benzina per alimentare i desalinizzatori. Serve benzina anche per caricare l’acqua sui camion e per trasportarla. Ma il carburante entra nell’enclave con il contagocce. Per lavarsi, fare il bucato o pulire le pentole usano tutti acqua salata. C’è anche chi beve l’acqua di falda così com’è, in mancanza d’altro».
Gli aiuti umanitari entrano a singhiozzo e il cibo scarseggia. «Al mercato i pomodori costano 20 dollari al chilo: può permetterseli solo chi lavora per una Ong o riceve soldi dai familiari all’estero». Prima che Gaza fosse distrutta, i campi erano coltivati. «Ora sono stati bombardati o coperti di tende. O di rifiuti».