domenica 30 luglio 2017
La piaga colpisce soprattutto la minoranza cristiana. Nel Punjab la polizia è spesso collusa con i potenti del luogo che sono lasciati liberi di esercitare ogni tipo di violenza
Famiglie schiave a vita per debiti di pochi euro. E una donna sfida le gang
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Un debito senza speranza di remissione tiene da un decennio in sostanziale schiavitù nel Pakistan una famiglia cristiana di sette persone. Una condizione difficile, che ha fatto di loro anche una vera e propria “merce di scambio” tra facoltosi possidenti musulmani.

Nulla di nuovo in una realtà come quella pachistana in cui 2,3 milioni di individui si stima siano in condizione di schiavitù nel disinteresse della società e delle autorità. Anche della polizia, sovente collusa o inerte rispetto ai potenti locali che hanno diritto di vita e di morte su interi nuclei familiari che si tramandano una sorte innescata dallo stato di bisogno. Vittime, in maggioranza e non a caso, all’80 per cento membri delle minoranze religiose come quelle degli indù e dei cristiani spesso relegate nelle aree a elevata incidenza della povertà. Come succede per i cristiani Nadeem Masih e sua moglie, impiegati in una fabbrica di mattoni della provincia del Punjab. Analfabeti, trascinano la vita sotto il sole cocente, senza prospettive. Una sorte che ora li accomuna ai cinque figli. La richiesta di un prestito di 42mila rupie (poco meno di 350 euro) al proprietario della fabbrica dove lavoravano ne ha condizionato la vita.

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Una pratica comune, necessaria anzi per molti dei manovali impossibilitati al lavoro durante la stagione monsonica. Spesso, però, la richiesta si presta a abusi e clausole che propiziano un vincolo indissolubile con il creditore. Quest’ultimo diventa arbitro delle loro vite. Una trappola, perché a essi viene pagato un compenso irrisorio che per un meccanismo perverso fa aumentare il debito esponenzialmente e comunque sempre in modo da concedere a colui che presta il denaro il controllo sulle vite dei dipendenti, legandosi così per lunghi periodi e sovente per tutta la vita. In molti casi perpetuando anche sui figli del debitore una condizione di dipendenza che non si riesce a spezzare.

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Nel caso della famiglia di Nadeem, la somma è salita negli anni a 215mila rupie. Fino a quando, tre anni fa, è stata ceduta dal “padrone” iniziale a un altro, che l’ha sfruttata in modo ancora peggiore, al punto da rendere precarie le condizioni della moglie, minacciata però – come il marito – di ritorsioni in caso di assenza dal lavoro. Più di recente la famiglia è stata “venduta” a un altro imprenditore. Le condizioni del contratto “firmato” da Nadeem utilizzando l’impronta del pollice sono di vero e proprio capestro. Costringono infatti in condizione di sostanziale schiavitù non solo i genitori, ma anche i cinque figli affinché il nucleo possa produrre un maggior numero di mattoni e dare loro una qualche speranza di vedere nel tempo cancellato il debito che una contabilità opportunista fa crescere continuamente. Una situazione che non solo pone a rischio la salute e la sicurezza dei bambini – due maschi e tre femmine – ma che impedisce loro di frequentare la scuola. Contemporaneamente, un’altra circostanza ha prostrato la famiglia: a tutti viene impedito di lasciare la manifattura alla domenica per frequentare le funzioni religiose.

Una situazione insostenibile che sta sollevando l’attenzione di gruppi impegnati per la fine della schiavitù nel Paese asiatico. La legge sull’abolizione del sistema di lavoro forzato del 1992 prevede pene severe ma resta spesso lettera morta. Anzi, il continuo riferimento a questo provvedimento da parte delle autorità, criticano gli attivisti sociali, non fa altro che evidenziare i limiti della sua applicazione in un Paese che è il terzo al mondo come entità del fenomeno. Gravi mancanze dei governi centrale e provinciali e l’ignoranza del problema da parte della maggioranza della popolazione permettono alla pratica della schiavitù per debito di prosperare. Anche di trasformarsi in qualcosa che aggrava l’immagine internazionale di un Paese con già pesanti responsabilità sul piano della diffusione del terrorismo, la democrazia limitata, l’ineguaglianza e le ingiustizie che ne accompagnano una crescita stentata. L’impegno delle organizzazioni che lottano contro il fenomeno ha due diverse modalità. Il primo, la raccolta di fondi per riscattare: “comprando” letteralmente gli schiavi dai loro “padroni” e rendendoli quindi liberi da ogni vincolo, soprattutto in settori come la fabbricazione di mattoni e la tessitura. Il secondo, la richiesta di intervento alle amministrazioni locali e alla polizia per tutelare i diritti dei lavoratori-schiavi e indurre le autorità a azioni incisive fino alla liberazione.

Di conseguenza, i primi contatti tra attivisti e schiavisti avvengono nel rispetto della legge, senza pressioni che potrebbero costringere i responsabili a tutelarsi nascondendo gli individui in condizione di schiavitù oppure a rivalersi su di loro con la violenza. Se il tentativo di conciliazione è inutile, vengono consegnate ai tribunali distrettuali denunce circostanziate. In questo modo, i magistrati possono chiedere alla polizia di intervenire per la liberazione. Su questa linea si è posta la vicenda di Raju, una povera contadine dell’area di Sanghar che è stata affrancata dalla schiavitù nel 1998. Nel lieto fine, un ruolo necessario ha avuto la Commissione per i Diritti umani del Pakistan, organizzazione non governativa che nell’ultimo ventennio è stata determinante nell’evidenziare e combattere diversi dei “mali” che affliggono il Pakistan e una parte non indifferente dei suoi quasi 200 milioni di abitanti. Se con l’impegno successivo alla liberazione Raju ha evidenziato le condizioni disperate in cui si è trovata (carichi di lavoro insostenibili, mancati pagamenti, cibo spesso negato, abusi fisici continui), ha anche espresso con veemenza il disaccordo verso l’apatia dei connazionali. Il dottor Ghulam Haider è impegnato nell’Organizzazione per lo sviluppo rurale sostenibile, che ha tra gli obiettivi la fine del lavoro coatto in settori come l’agricoltura, l’industria, la produzione di mattoni, la pesca. «Non c’è alcuna volontà politica di ridurre le violazioni dei diritti umani che coinvolgono i lavoratori-schiavi – conferma –. Individui influenti non pagano il dovuto a chi lavora per loro e invece reagiscono con brutalità contro chi rivendica i propri diritti ». Per individuare una soluzione – ricorda il dottor Haider – serve un impegno delle autorità. Le leggi ci sono, ma non sono applicate».

La speranza ha il volto di Fatima, donna che sfida le gang

Un nome altisonante, Fronte per la liberazione dal lavoro forzato, ma una sede che è poco più di un negozio aperto sulla strada della seconda metropoli pachistana, Lahore, e una organizzazione essenziale affidata a attivisti sparsi nelle immense campagne del Pakistan. Una iniziativa che ha contribuito alla liberazione di almeno 80mila individui dalla schiavitù e ha preparato professionalmente centinaia di donne a cercare un lavoro.

A guidarla è una donna, istruita e più volte premiata per il suo impegno, con una collezione di cicatrici e pressioni che hanno consolidato il suo impegno anziché indurla alla ritirata. Aveva meno di quindici anni, Fatima Syeda Ghulam, quando decise di intraprendere la sua lotta e così descrive quel momento: «Mio padre, Syed Dildar Hussain, era un sindacalista. Ricordo ancora quando insieme ci recammo per la prima volta alle fornaci di mattoni attorno a Baghriyan, nell’area di Green Town nella nostra Lahore per educare i lavoratori su cui un clan locale reclamava la proprietà. Non ho dimenticato quando venni picchiata per la prima volta». Una realtà che non lasciò indifferente l’adolescente Syeda, che trovò la propria vocazione: «Decisi che avrei dovuto prendermi cura di loro, che avrei dovuto combattere e operare per loro. Il mio desiderio primo è di salvare i bambini, la prossima generazione, dalla schiavitù».

«Una bambina su tre viene umiliata dal suo “padrone”, è stuprata, posta in schiavitù. Quindi io voglio liberarle, voglio liberare tutti i bambini, educarli. Voglio dare loro voce. Questo è il mio sogno». «La mia battaglia contro il lavoro forzato dura da quarant’anni – prosegue –. In tutto questo tempo ho visto mia fratello perdere l’uso delle gambe per l’aggressione dei proprietari delle fornaci di mattoni, anch’io ho avuto le gambe spezzate, ma non sono diventata invalida contrariamente a lui. Ho combattuto gli imprenditori-padroni giorno e notte. Si tratta di una rete criminale potente e organizzata con agganci nelle assemblee legislative, nella magistratura e nel governo. Ancora oggi c’è che tenta di uccidermi».

Come ricorda la motivazione del Premio Aurora per il risveglio dell’umanità di cui è stata finalista lo scorso anno, da ragazzina, Syeda Ghulam Fatima è stata testimone di ciò «che nessuno dovrebbe vedere». Per questo in ogni occasione, in pubblico, racconta la sorte di individui «la cui dignità è stata rubata nelle fabbriche dei mattoni del Pakistan, dove devono lavorare dall’alba al tramonto sotto la minaccia delle armi, senza pietà. Bambini, anziani, uomini, donne – tutti sottoposti a torture da parte di proprietari benestanti che li violentano, li controllano, li lasciano soffrire la povertà senza cibo o vestiti». Da qualche tempo, Syeda Ghulam Fatima deve affronate anche un fronte forse meno pericoloso per l’incolumità personale, ma subdolo e comunque rischioso per il suo impegno: quello delle accuse di appropriazione di denaro destinato alle sue attività sociali. Insinuazioni e accuse che la combattiva attivista considera «propaganda», parte di un «disegno nefasto» dei suoi rivali per screditarla.

D’altra parte, i risultati del suo impegno sono riconosciuti e apprezzati anche internazionalmente. Le sue iniziative provano insieme a sensibilizzare sui problemi ma anche a cercarvi soluzioni concrete. A partire dalle alternative al lavoro forzato per i tanti che vi sono costretti. Garantire l’accesso alla tutela legale per chi la richieda è un altro fronte aperto, l’unico che costringa le autorità a intervenire per risolvere un dramma nazionale.

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