Nella guerra a distanza fra il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, e l’Unione Europea sono arrivate anche le minacce. Il capo di Stato di Ankara ieri ha avvisato che, se le cose proseguono in questo modo, i cittadini del Vecchio Continente non potranno più sentirsi sicuri quando camminano per strada. «Mi rivolgo agli europei – ha detto –: la Turchia non è un Paese da prendere in giro. Non è un Paese che permette si giochi con il suo onore, che i suoi ministri siano sbattuti fuori e i connazionali spintonati per le strade ». «Se continuate così – ha garantito Erdogan –, nessun europeo, nessun occidentale potrà più camminare in pace per strada in nessun luogo al mondo».
Da inizio marzo, ormai, i rapporti fra Ankara e alcuni Paesi dell’Unione sono deteriorati. La motivazione è il divieto imposto ai ministri dell’esecutivo islamico di tenere comizi all’estero, nello specifico in Olanda e Germania, in vista del referendum del prossimo 16 aprile, quando la Turchia sceglierà se passare da un sistema parlamentare a un sistema presidenziale, e dove si deciderà il futuro dello stesso Erdogan, che da tempo esercita un potere assoluto, ma che non ha la legittimazione per farlo.
Il «no» di Berlino e dell’Aja si è trasformato in una potente arma elettorale per il capo dello Stato. Se a febbraio, infatti, i sondaggi davano il «sì» alla riforma in netto svantaggio, adesso favorevoli e contrari sarebbero testa a testa, fermi al 40%, con ancora il 20% di indecisi. Ogni voto è prezioso, soprattutto quelli all’estero, dove si potrà andare alle urne fino al 9 aprile e dove in alcuni Paesi l’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, guidato da Erdogan, è nettamente la prima formazione politica. Il referendum, insomma, ha assunto una forte connotazione ideologica, dentro e fuori le mura di casa. E il presidente, pur di guadagnare consensi, è pronto a usare l’arma antieuropeista fino al 15 aprile, a ridosso del voto, quando la campagna finirà ufficialmente. Così, dopo le accuse di nazismo al cancelliere tedesco Angela Merkel e di islamofobia all’Olanda, adesso punta il dito contro tutta l’Unione Europea.
«Se aprite questo capitolo pericoloso – ha detto Erdogan – ne pagherete le conseguenze. Come Turchia, vi invitiamo a rispettare la democrazia, i diritti umani e la libertà». La reazione di Berlino – in questo momento il bersaglio numero uno di Ankara visto che ospita 3 milioni di turchi e oltre un milione di elettori – non si è fatta attendere. Se nei giorni scorsi la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva detto che le accuse di nazismo dovevano finire «senza se e senza ma», oggi il nuovo presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, nel suo primo discorso ufficiale, oltre ad aver definito «incommentabili» i paragoni con la Germania nazista, ha aggiunto che Erdogan, con il suo operato, sta vanificando i passi avanti fatti dal suo Paese negli ultimi anni. Ma, almeno fino al 16 aprile, il presidente turco non sembra assolutamente intenzionato ad abbassare toni che potrebbero fargli avere la meglio alle urne. I sondaggisti hanno previsto che, per determinare una sua sconfitta matematica, dovrebbe votare oltre l’85% degli aventi diritto.
L’elettorato più giovane, infatti, è quello più scettico nei confronti della riforma. Anche per questo, il presidente sta usando l’arma europea: per assicurarsi la preferenza della Turchia più matura anagraficamente, non particolarmente attratta dalla prospettiva dell’adesione e più sensibile a tematiche nazionaliste. Intanto, le notizie che arrivano dal Paese parlano di una campagna referendaria quasi monocorde, dove però non mancano i momenti di tensione. Studenti universitari ad Ankara che distribuivano materiale con le ragioni del «no» alla riforma hanno detto di essere stati attaccati da gruppi ultranazionalisti. Il leader dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, ha denunciato che, per l’occasione, è stata concessa la cittadinanza turca a tempo di record a migliaia di rifugiati siriani, che potranno recarsi alle urne e quasi certamente votare a favore del «sì».