L’azienda giapponese leader mondiale nella produzione agruicola di fibbre di abacà, è attiva in Ecuador dal 1963 - Web
La Corte Costituzionale dell’Ecuador ha emesso una sentenza storica contro l’azienda Furukawa, stabilendo che per decenni ha perpetrato una forma di schiavitù moderna a danno dei suoi lavoratori. L’azienda giapponese, attiva nel Paese dal 1963, possiede più di 2.000 ettari di terreno ed è il secondo produttore mondiale di fibra di abacà, ricavata da piante imparentate con il banano da frutto. Furukawa era già finita sotto i riflettori nel 2019, quando alcune denunce avevano portato ai primi sopralluoghi delle autorità, facendo emergere condizioni di lavoro disumane.
La Corte ha stabilito che la multinazionale ha sfruttato i suoi lavoratori, per lo più afrodiscendenti e in condizioni di estrema vulnerabilità: «Furukawa ha violato il divieto di schiavitù a danno delle lavoratrici e dei lavoratori dell’abacà nelle sue proprietà agricole, annullandone la dignità umana», si legge nella sentenza. I lavoratori vivevano in accampamenti privi di luce, acqua potabile e servizi igienici, costretti a raccogliere l’abacà senza possibilità di migliorare la propria condizione. La Corte ha accertato che le abitazioni erano illuminate con strumenti artigianali che rilasciavano esalazioni tossiche e che, in assenza di servizi sanitari, le persone erano obbligate a recarsi nella boscaglia.
Il verdetto obbliga Furukawa a pagare 120.000 dollari a ciascuna delle 342 vittime identificate, per un totale di oltre 41 milioni di dollari, con un risarcimento aggiuntivo di 5.000 dollari per le donne, i minori, gli anziani e le persone che hanno subito mutilazioni causate dall’utilizzo insicuro di macchine agricole. Furukawa dovrà presentare pubbliche scuse alle persone colpite, così come il presidente dell'Ecuador, Daniel Noboa.
La Corte ha inoltre puntato il dito contro lo Stato, condannando l’inazione di diversi ministeri, tra cui Lavoro, Salute, Istruzione e Inclusione Economica e Sociale, per non aver adottato misure adeguate a proteggere i lavoratori, nonostante le denunce. La sentenza evidenzia il razzismo strutturale come elemento cardine di questo sistema di sfruttamento: «Le persone – si legge nelle carte – che coltivavano l'abacà erano percepite, a causa della loro origine afrodiscendente, come oggetti di produzione e non come persone con pari dignità umana».