domenica 14 luglio 2024
Spari a un comizio in Pennsylvania. Un giovane ha fatto fuoco e poi è stato ucciso. Già dimesso il candidato repubblicano. Solidarietà di Biden e condanna unanime. I riflessi sulla campagna elettorale
Donald Trump ferito sul palco, mentre gli uomini e le donne della security lo cingono

Donald Trump ferito sul palco, mentre gli uomini e le donne della security lo cingono - Reuters

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È il Paese che stila classifiche di democrazia e ha cercato spesso di esportarla oltre i propri confini. Ma ha nel suo Dna una predisposizione alla violenza politica che non riesce a cancellare. Gli spari contro Donald Trump al comizio a Butler, in Pennsylvania, ne sono la conferma. Un ventenne ha cercato di assassinare l’ex presidente durante un comizio, venendo poi ucciso dai servizi segreti. Un’altra persona è rimasta uccisa e due colpite durante il conflitto a fuoco. Il tycoon è stato ferito all’orecchio destro, medicato in ospedale e poi dimesso.

Ma lo choc sul Paese e le conseguenze sulla campagna elettorale saranno molto più gravi della lesione riportata dal candidato repubblicano. La condanna del gesto è stata immediata e senza esitazioni, a partire dal presidente Joe Biden, che ha parlato con il suo avversario, dagli ex inquilini della Casa Bianca e tutto il Partito democratico. La fotografia di Trump con il volto insanguinato, il pugno alzato e la bandiera americana sullo sfondo è già un’immagine simbolo e sarà l’icona dei prossimi mesi.

Lo scontro al calor bianco che ha contrapposto i due schieramenti può avere alimentato l’odio e le pulsioni di estremisti in una nazione armata fino ai denti (le minacce di morte si sprecano e le personalità sotto scorta sono numerose), ma in mancanza di informazioni sull’attentatore è imprudente fare analisi sulla matrice dell’azione messa in atto. Si sa il suo nome, Thomas Matthew Crooks, che era della zona, che sarebbe stato iscritto alle liste del Partito repubblicano e che aveva un fucile semiautomatico AR15.

Certamente, l’esecrazione della violenza non basterà a fare scendere la tensione alla vigilia della Convention repubblicana che si apre domani a Milwaukee. Un grande conoscitore delle dinamiche americane come Karl Rove ha evocato un ritorno del periodo 1963-1981, segnato all’inizio dall’omicidio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas e alla fine dal ferimento di Ronald Reagan a Washington (messo in atto da uno squilibrato non per motivi ideologici). Nel mezzo una serie di violenze politiche che scossero gli Stati Uniti. Non necessariamente sarà così, si deve auspicare che non sia così.

Trump per ora ha rassicurato sulle proprie condizioni dopo essere stato medicato. Aveva scandito uno slogan, “fight, fight, fight”, lasciando il palco nei momenti drammatici della sparatoria. Alcuni esponenti repubblicani hanno accusato la campagna dei democratici di avere creato le condizioni per gesti come questo del 13 luglio. Ma le inchieste, i processi e la polemica su affermazioni e programmi nulla hanno a che vedere con l’eliminazione fisica dell’avversario. Non sembravano nemmeno esservi allarmi particolari sulla sicurezza dell'evento. Ovviamente, ci sono state aggressioni recenti come l'incursione a casa dell'ex speaker Nancy Pelosi (aggredito il marito) e una serie di intimidazioni verso i giudici coinvolti nei procedimenti contro il tycoon.

La ricostruzione dei fatti nelle prossime ore dirà se sottovalutazioni nella protezione dell’ex presidente sono state compiute. Pare che il giovane abbia sparato dal tetto di una casa vicina al luogo del comizio, a circa 150 metri, e che qualcuno lo abbia visto con il fucile in mano e abbia tentato di avvertire la polizia. Dopo i primi colpi, un cecchino delle forze dell’ordine lo ha ucciso. Inevitabile che si apra il vaso senza fondo dei complotti e delle ipotesi non suffragate. Ha cominciato Mosca, facendo trapelare sospetti su un coinvolgimento degli 007 ucraini. L'indignazione e la solidarietà dai principali Paesi occidentali a Trump, tra i primi anche il presidente Mattarella e la premier Meloni, per ora fa scudo a interpretazioni infondate.

Si dovrà dunque capire come reagiranno i sostenitori del candidato repubblicano, se i leader sapranno infondere calma negli animi agitati e convogliare i sentimenti inevitabilmente suscitati dall’attentato nell’alveo del confronto democratico, già messo fortemente sotto stress in questi mesi dalla retorica della delegittimazione (il non riconoscimento della vittoria di Biden nel 2020) delle accuse reciproche. La tentazione di soffiare sul fuoco potrebbe essere forte. Anche se non vi sono elementi attualmente che fanno pensare a un degenerare della situazione.

Dal punto di vista della corsa alla Casa Bianca, le analisi a caldo inducono a pensare che Trump possa avere, comprensibilmente, una forte spinta nel consenso popolare immediato e che possa modellare la propria narrazione da qui a novembre sulla scia dell’attentato subito. Dal punto di vista strettamente politico, il frangente diventa comunque senza precedenti. Da una parte, c’è un presidente in carica e candidato riconfermato dal voto popolare che il suo stesso partito cerca ora di defenestrare perché non ritenuto capace di reggere un secondo mandato a causa delle sue condizioni psico-fisiche, quasi un piccolo “colpo di stato”. Dall’altra parte, c’è un ex presidente, candidato scelto con un plebiscito, sotto processo per vari reati e con già una condanna, che viene ferito durante un appuntamento elettorale e grida “non ci arrenderemo”. Un’America stabile e capace di portare a termine regolarmente e senza spargimenti di sangue il processo di selezione del proprio leader è quello che tutti si devono augurare in questo momento drammatico.


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