domenica 5 novembre 2023
Il cappuccino Angelo Pagano, vescovo di Harar in Etiopia, legge con gli occhi di un italiano nato in Eritrea i conflitti dimenticati, gli effetti del clima che cambia e il flusso dei migranti
«La mia Africa, stritolata dall'odio etnico e dalla corruzione»

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Italiano d’Eritrea e vescovo della città della pace, monsignor Angelo Pagano è pastore di Harar, in Etiopia, dal 2016. Con lui, che ogni giorno vive in prima linea tra povertà, mutamenti climatici, tensioni religiose e conflitti etnici dimenticati (ne parlerà nel pomeriggio di giovedì prossimo a Milano, all’università Cattolica, in un confronto moderato dal direttore di Avvenire Marco Girardo), vediamo come sia possibile costruire comunque la pace. « Harar è la quarta città dell’islam per importanza – spiega Pagano, nato ad Asmara – e significa città della pace». Un osservatorio unico nel cuore dell'Etiopia, il gigante africano la cui unità, a un anno dagli accordi di Pretoria per il cessate il fuoco in Tigrai, viene messa a rischio da conflitti interni e da quelli che possono deflagrare in tutto il Corno.

Lei è italiano d’Africa, missionario da 35 anni e vescovo da sette. Nel Continente dei conflitti dimenticati come si costruisce la pace?

La speranza è sempre l’ultima a morire e credo che le popolazioni africane, se lasciate libere di camminare e di sbagliare, ci metteranno più tempo, ma riusciranno a venirne fuori. L’Africa è in cammino, in Europa ci sono voluti decenni per realizzare la democrazia che non è ancora arrivata dappertutto. Ognuno di noi vuole la pace e nella chiesa, in particolare, ci sono vescovi e cardinali impegnati in prima persona per difendere i diritti umani e parlare delle difficoltà e delle ingiustizie. L’Africa è condizionata da molte potenze, però abbiamo la libertà di opporci e anche noi che ci viviamo abbiamo le nostre colpe.

Ad esempio?

L’Africa ha bisogno di tempo, sì, ma anche questo sta scadendo perché le ultime indipendenze risalgono a più di mezzo secolo fa e in questo tempo è cresciuta una nuova élite colta. È arrivata alla maturità una generazione che ha girato il mondo, è aperta e conosce bene la realtà globale e che deve agire. Deve scegliere se stare con la popolazione e battersi per il bene comune oppure pensare solo al benessere del proprio clan. Ci sono leader di buona volontà che vogliono la pace, la sfida principale è riuscire a far convivere i differenti gruppi etnici all’interno della stessa nazione. È difficile per gente abituata da secoli ad essere guidata da capi della stessa etnia accettare capi di altri gruppi etnici. Ci vuole questa capacità e non basta sperare nelle generazioni future, bisogna cominciare ora il cambiamento.

In tanti anni di vita e missione africana quale conflitto l’ha colpita?

Quello in Camerun, dove sono stato tanti anni perché a suo modo è esemplare. Dopo decenni di convivenza pacifica fino agli anni 90, sono iniziati piccoli problemi, poi degenerati, e ultimamente c’è un conflitto tra la zona francofona e quella anglofona. Purtroppo molti non hanno capito quello che continua ripetere papa Francesco: la guerra non è la soluzione dei mali, ma ne crea di più grandi, è una sconfitta per tutti. Ci vogliono anni per costruire, un attimo per distruggere. In Africa ci sono decine di guerre dimenticate, che non risolvono nulla e che provocano centinaia di migliaia di morti. Purtroppo pochissime testate – Avvenire è una di queste – danno spazio all’Africa e alle guerre dimen-ticate, parte di questa guerra mondiale a pezzi e di cui Francesco parla dal 2014. Se le uniamo a quelle di cui parlano ogni giorno i grandi media vediamo che l’umanità sta correndo enormi rischi.

Lei è il vescovo cattolico di Harar, città importante per l'islam. Come sono oggi i rapporti tra cristianesimo e islam in Etiopia?

Purtroppo negli ultimi anni la convivenza tra musulmani e cristiani soprattutto ortodossi è peggiorata. La violenza aumenta. Personalmente sono stato aggredito lo scorso agosto nella Somali region (l'ex Ogaden, ndr) dove ero andato a benedire una cappelle. Al termine della celebrazione ci siamo trovati circondati da 50 giovani armati di sassi e bastoni. Avevano incendiato una chiesa Chiesa ortodossa confinante e ucciso il sacerdote. Siamo stati tenuti in ostaggio per sei ore. Grazie a Dio mi ha aiutato lo spirito francescano. Sono andato disarmato a parlare con loro, ho preso qualche pietra, ma li ho convinti a liberarci. Ci avevano scambiati per ortodossi. Poi siamo venuti a sapere che erano stati uccisi in tre giorni 12 preti e diaconi ortodossi e sono state distrutte diverse chiese in sette zone. Era un attacco premeditato agli ortodossi.

E i cattolici?

Non c’è accanimento perché siamo un milione su una popolazione di 120 milioni di abitanti. La chiesa cattolica è inoltre riconosciuta e stimata come l’organizzazione umanitaria attraverso la quale passa la maggio parte degli aiuti. Siamo invece soggetti a discriminazioni quotidiane o a sequestri da parte di banditi in alcune zone che chiedono riscatti. È capitato anche al clero.

Che conseguenze ha avuto in Etiopia il conflitto in Tigrai unito alle chiusure della pandemia e agli effetti del conflitto in Ucraina?

Harar è distante dal Tigrai, ma le conseguenze sono state fame, morte e povertà. La guerra ha provocato una gravissima inflazione, per cui i prezzi sono triplicati in pochissimo tempo. La situazione per molti è diventata insostenibile. Dal 2003 al 2018 c’era stato un grosso sviluppo, oggi è difficile muoversi in tutta l'Etiopia perché trasporti pubblici sono troppo cari

Si avvertono gli effetti dei mutamenti climatici in un paese agricolo?

Purtroppo si. Diverse aree sono inaridite e le piogge monsoniche spesso provocano inondazioni e distruzione dei raccolti. La gente nella nostra zona pastorale è costretta a camminare per chilometri per prendere l’acqua. I vicariati e le diocesi etiopiche stanno lavorando per la costruzione di serbatoi. Altro problema sono le locuste che si sono moltiplicate. La campagna del premier Abiy Ahmed di piantare diversi milioni di alberi per combattere i mutamenti del clima è stata encomiabile. Ma è come il cane che si morde la coda, se la gente non ha il gas deve tagliare gli alberi per cucinare o scaldarsi. Se non stiamo attenti, andiamo verso la desertificazione.

Nella Giornata del migrante il papa ha ripreso lo slogan di una campagna Cei, “Liberi di partire e liberi di restare”. Come si può realizzare questa libertà di scelta?

L’Africa ha grandi potenzialità eppure sentiamo i giovani dire che non hanno speranze né sogni per il loro futuro. E sono volenterosi e intelligenti. Quel che dice il Papa è quello che diciamo anche noi vescovi d’Africa e che pensano gli africani. Bisogna dare la libertà di scelta creando sviluppo. Le possibilità ci sono, ma vanno indirizzate meglio. Una parte importante devono svolgerla le autorità locali e i governi utilizzando gli aiuti per progetti mirati. E poi bisogna sconfiggere la corruzione da ambo le parti evitando che si aiuti solo una parte della popolazione o che i soldi spariscano. La voce del Papa si leva perché è la voce della fede, ma la maggior parte del mondo la fede l’ha persa. I cristiani sono una minoranza, diamoci da fare allora, dobbiamo essere lievito e voce di chi non ne ha. Portare avanti evangelizzazione e promozione umana nei villaggi e nelle periferie soprattutto dove non c’è nulla. Anche a costo del martirio.

Europa e Africa, il continente più vecchio e quello più giovane, si incontreranno?

Credo che l’Europa debba domandarsi prima perché vuole integrarsi sempre di più con l’Africa. Se la risposta è perché invecchiamo non ce la faremo, questa è una forma di neo colonialismo. Se guardiamo agli africani finalmente come a delle persone, allora si potrà fare. Non sarà facile, anche in un solo Paese è difficile la convivenza tra diversi gruppi etnici, figuriamoci in due continenti. Il terreno va preparato, le nuove generazioni figli di immigrati, a differenza dei genitori, creano problemi perché non è stata curata l'integrazione. Per l’africano l’Ue è un miraggio, ma non vuole fare il servo. Occorre umiltà da parte di entrambi.

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