lunedì 20 maggio 2024
Daniele ha la sindrome di Prader-Willi (PWS), malattia genetica rara, che però non gli impedisce di condurre una vita aperta alla solidarietà. "L'adozione a distanza la sostengo con la mia pensione"
La famiglia Fornasier. Daniele è il primo a sinistra

La famiglia Fornasier. Daniele è il primo a sinistra

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Entro nella casa di Limana (Belluno). Daniele Fornasier mi viene incontro, mi saluta, si presenta e mi prepara il caffè. «So parlare, so camminare, non sono invalido. Inoltre, ho una cosa che tu non hai: la sindrome di Prader-Willi (PWS). Perciò sono speciale». «Sì, Daniele è proprio speciale. È solare, si sa comportare, è amico di tutti, capisce, lavora in una cooperativa, si lava, si veste, mangia da solo», dicono mamma Maurizia e papà Giorgio.

L'hanno raccontata mille volte la loro storia, perché potesse essere di sollievo a tante famiglie spaventate e impotenti davanti a questa malattia genetica rara, che inibisce il senso di sazietà, provocando un aumento anomalo dell'appetito, che può portare a un'obesità anche letale. Se Daniele oggi ha 48 anni, ed è autonomo, lo deve alla cocciutaggine dei suoi genitori. «Non ci siamo mai arresi. Abbiamo sempre cercato di essere positivi. In questo, ci ha aiutato molto la fede», dice Giorgio che, per oltre vent'anni, si è speso in prima persona affinché tutti i bambini del mondo, potenziali PWS, potessero godere di una diagnosi precoce.

«Quando un dottore ha finalmente dato un nome al problema di nostro figlio, che all'epoca aveva otto mesi, ho detto a mio marito che noi eravamo stati fortunati, e che dovevano impegnarci per aiutare più famiglie possibili ad avere la stessa opportunità, perché la diagnosi precoce è il primo passo per poter poi condurre una vita normale». Era il 1976 e questa sindrome era sconosciuta ai più. Giorgio Fornasier all'epoca aveva solo vent'anni. «Fu come se ci fosse crollato il mondo addosso». E una carriera che stava per decollare. Con l'amico Gianni Secco, aveva da poco fondato il duo bellunese Belumat con il quale, fino al 2007, avrebbero raccontato con musica e parole le tradizioni venete. Ma sarebbe diventato poi anche un tenore di fama internazionale che, nel 2018, ha cantato “La Guadalupana” nella Basilica di San Pietro, per papa Francesco, e anche un compositore, un musicista che suona pianoforte e chitarra senza quattro dita, sfracellate da un macchinario per la pasta, e un export manager per varie aziende.

Oggi Giorgio si è fermato. «Io e mia moglie siamo stanchi. Non abbiamo più rinnovato il passaporto e abbiamo riposto le valigie. Ci dedichiamo ai nipoti, all'orto, alla comunità. Non faccio più concerti. Canto solo in chiesa, Maurizia mi assiste e Daniele fa il chierichetto. A una certa età, bisogna avere il coraggio di girare pagina. Restano i ricordi, i contatti con gli amici, e le relazioni nate mentre ci battevamo per far conoscere la sindrome di nostro figlio».

«Quando nacque - racconta Maurizia - ce lo fecero battezzare subito, perché - dissero i medici - non c'erano speranze. E, se anche per un miracolo ce l'avesse fatta, non avrebbe superato i quattordici anni, perché all'epoca quella era l'aspettativa di vita». Ma le cose sono andate diversamente. Daniele è un adulto, ed è grato ai suoi genitori per non aver mollato. «Facciamo delle litigate, ma poi torniamo ad andare d'amore e d'accordo». Litigate perché? E qui cerca di glissare. «Perché gli neghiamo l'accesso ai dolci. Prima si controllava di più, con l'età adulta tende a lasciarsi andare, ma non va bene. Ha messo su qualche chilo, ma bisogna stare attenti al diabete», dice mamma Maurizia, che lo segue anche dal punto di vista farmacologico.

L'attività di concertista e di uomo d'affari ha permesso a Giorgio di andare ovunque a parlare della sindrome, non solo da genitore, ma anche da delegato italiano dell'Associazione internazionale per la sindrome di Prader-Willi (Ipswo), e poi da presidente. «Ogni volta che ero all'estero per lavoro o per un concerto, nel tempo libero approfittavo per partecipare a congressi scientifici, visitare gli ospedali, incontrare i medici e le famiglie. Questo ha fatto sì che l'associazione passasse da 21 Stati membri a 102. Perfino due famiglie eschimesi dalla Groenlandia si sono unite a noi».

Daniele ha un fratello, Redi, e due “nipoti”, ai quali è molto affezionato, ma all'inizio non è stato facile per lui, consapevole che non avrebbe potuto avere figli suoi. «Così, grazie a un sacerdote amico, ho adottato a distanza i bambini brasiliani Joao Pedro e Ana Alice», racconta.

«Li ha mantenuti con la sua pensione - aggiunge Giorgio -, li ha fatti studiare, e ora sono diventati adulti e lo hanno reso nonno, e noi bisnonni. Ha voluto andare a conoscerli di persona nella favela dove vivono. È stato bravo. Voleva rendersi conto della loro condizione e di quanto sia stato importante il suo aiuto. Non avendo loro più bisogno, ne ha adottati altri due, della parte più misera di Bahia».

«Si chiamano Tahis e Louis Enrique - dice Daniele -. Ci scriviamo spesso». «Daniele è un dono per noi, ma anche per tutte le famiglie che ho incontrato in tanti anni. In verità, si tratta per lo più di mamme, perché i padri, quando apprendono del problema, tendono a scappare. Le mamme si ritrovano sole. Quando ricevevo una mail di una madre disperata, le mandavo subito una foto della nostra famiglia sorridente, e scrivevo: “Sono il padre orgoglioso di un uomo”. La parola “uomo” era già un sollievo, risolveva il dubbio più grande: quanto sarebbe vissuto mio figlio? E poi, quando potevo, lo portavo con me. Così tutti potevano conoscerlo. Quando abbiamo organizzato il primo congresso in Messico, abbiamo fatto celebrare una Messa. Le persone si sono commosse, non per me che avevo cantato l'Ave Maria, ma vedendo Daniele che faceva il chierichetto con grande disinvoltura. Era la testimonianza vivente che Prader-Willi non è la fine di tutto. Daniele è un ambasciatore positivo. Per il mondo è "the village boy”, il ragazzo solare di una cittadina del Bellunese, che ama abbracciare tutti. A proposito, suona anche il pianoforte, va a orecchio, ha imparato guardando me. Anche i miei nipoti sono musicisti. La musica sì, è malattia di famiglia».

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