«Sei donna. Ti sposi. Magari arrivano figli. Magari di lavoro fai il medico. Ed ecco, ci provi a combinare famiglia e lavoro. Cerchi modelli, un aiuto, o almeno una ricetta, qualunque cosa pur di farcela. E se alla fine il lavoro prevalesse su tutto? Come resistere alle fatiche? Come scampare ai sensi di colpa? E quando ti guarderai indietro, cosa dirai delle scelte fatte? Cosa ne diranno i figli?». Sono soltanto alcune delle domande che la gastroenterologa Elisabetta Buscarini, classe ’59, si pone nel volume Al mio posto. Confidenze quasi serie sul mestiere di MoglieMammaMedico, edito da Ares.
Al netto del tono a tratti ironico con cui si racconta, la dottoressa tocca temi importanti, come la conciliazione tra famiglia e lavoro. E lo fa soprattutto a partire dalla sua esperienza concreta, fin dall’incipit: «Sono le 4:30 del mattino, guido dall’aeroporto di Malpensa. Domanda ovvia: perché una sessantaquattrenne con quattro figli, un solo marito e quasi sette nipoti, a quest’ora non è a dormire nel suo letto? Perché faccio il medico. E quindi sto tornando da un congresso dedicato a una malattia rara che seguo da trent’anni insieme a tanti collaboratori, e per cui il nostro ospedale è uno dei pochissimi centri di riferimento in Europa». Oggi, «mentre guido sforzandomi di non addormentarmi, come mi è capitato tantissime volte nei miei quasi quarant’anni di lavoro, mi chiedo: a chi devo tutta la gratitudine che mi riempie guardandomi indietro? E come mai se ne è andata, per sempre, la domanda che nei primi anni di fatica affiorava, inesorabile: ma chi me l’ha fatto fare? Chi mi ha fatto decidere di metter su famiglia e insieme di essere medico? Dedico queste pagine a tutti coloro, donne e uomini, che hanno provato quanto brucia questa domanda».
Sposata con Alfonso (detto Nanni) dal 1985, che incontra 10 anni prima al ginnasio e con cui si fidanza nel ’78, con lui ha «quattro figli, un genero, due nuore e quasi sette nipoti». Arrivano alle nozze con una profonda consapevolezza: «Impariamo che l’altro non è la stampella per affrontare la vita, né l’altra è il rifugio del guerriero: ciascuno dei 2705 giorni del nostro fidanzamento ci insegna che ognuno di noi due, in prima persona, deve rispondere personalissimamente alla chiamata vocazionale, deve scegliere come stare di fronte all’altro, come vivere le circostanze che attraversiamo insieme». Dopo 5 anni hanno già 2 figli, Andrea e Laura: «È chiaro fin dall’inizio del nostro matrimonio che i nostri lavori sono parte della vita della famiglia che abbiamo formato, e che perciò le fatiche che i nostri lavori comportano non sono un’obiezione, e tendenzialmente sono affare di tutta la famiglia. Tra me, mio marito e in seguito i figli ci si sostiene per superare le difficoltà, i momenti impegnativi». Infatti, «Nanni c’è e non si fa grandi problemi ad accudire i bimbi se la moglie deve lavorare».
Gli anni passano e la famiglia si allarga ancora: nascono Martino e Daniele. «2003, ho quarantaquattro anni e quattro figli. Sto partendo per un congresso, passo la mattina a completare febbrilmente le presentazioni che dovrò fare. Come sempre mi riduco all’ultimo minuto. Stabilisco il record di velocità in confezionamento valigie: valigia per quattro giorni di congresso in 40 minuti netti. Mi aiutano un po’ tutti: mio marito e i miei figli mi hanno fatto sempre sentire che il mio lavoro è un bene della famiglia».
Certo, conciliare tutto non è mai un’impresa semplice e indolore: «Come si fa a dare il tempo giusto a marito, figli, famiglia, amici e insieme al lavoro? Come si fa a trovare l’equilibrio tra tante esigenze, continuamente mutevoli? E qui direi di alzare subito bandiera bianca: l’equilibrio perfetto tra gli affetti e i doveri, tra il lavoro e la famiglia è una chimera, non esiste. Invece di frustrarsi quotidianamente alla ricerca di un equilibrio perfetto, scelta fallimentare e sfibrante, ho compreso che bisogna avere chiare le priorità, avere chiaro quale interesse ci muova nell’attimo, quali siano i valori fondamentali della nostra vita e anche il loro ordine gerarchico. Quindi, primo comandamento: impostare le priorità».
La dottoressa ricorda: «Nelle mie fatiche quotidiane, sono circondata non solo da concorrenza, come è ovvio in tutte le carriere lavorative, ma anche proprio da diffidenza, con corredo di frasi tipiche, malevolenti: “Eh, hai figli piccoli, come fai a lavorare così tanto? Ti pentirai di queste scelte! Non si può fare tutto!”. In particolare, mi fa male che le obiezioni al fatto di avere famiglia e lavoro di solito mi vengano proprio dal mondo cattolico, compresi amici o qualche influencer del consiglio pastorale. È l’altra faccia del conformismo, molto più in voga negli anni Ottanta rispetto a ora, sul lavoro della donna, per cui la vera realizzazione sarebbe dedicarsi esclusivamente alla famiglia».
Elisabetta chiede «un orario più compatibile con la mia famiglia, leggasi: niente turni e reperibilità. Per esempio, per un certo periodo chiedo di verticalizzare il part time e di poter stare a casa il mercoledì; questo orario di lavoro mi aiuta molto anche quando si ammalano i miei suoceri, entrambi fragilissimi e confinati a letto». Quindi, «le circostanze sono una chiamata formidabile, ma purtroppo no, non ce l’hanno la funzione self-speaking: bisogna saperle leggere, pregando e chiedendo aiuto a chi ci è vicino nella fede, a chi può davvero essere un sostegno nella fatica di scegliere. Non qualunque posto di lavoro va bene, va bene quello che rispetta le priorità stabilite. Tra lavoro e famiglia, per prima viene la famiglia». Con una chiamata «a una nuova alleanza con i nostri mariti», proprio nel momento in cui «è maturata una maggiore consapevolezza delle doti che le donne esprimono sia fuori che dentro casa».