Romano Siciliani
Qualcosa balugina, in mezzo alle molteplici attività, alle incombenze, agli appuntamenti quotidiani. Qualcosa che sembra sufficiente per prendere la decisione di iscrivere i propri figli al cammino di iniziazione cristiana. Anche se il ritornello della società senza valori risuona, non sono pochi i bambini che varcano la soglia di oratori e di centri parrocchiali per un percorso di catechesi. Però la trasmissione della fede è altro; non si può ridurre a un incontro settimanale o quindicinale, ma è un cammino di vita, di comunità che ha, o dovrebbe avere, nella famiglia il motore principale, la culla. La famiglia dovrebbe trasmettere un qualcosa di prezioso, un bene per la vita, alleandosi con chi, nella comunità cristiana, per vocazione e per mandato, ricopre un ruolo educativo particolare.
Qui si apre un quaderno di doglianze, un elenco di delusioni e di fallimenti che molti catechisti potrebbero aggiornare. Però i bambini sono preziosi e stupiscono sempre, le mamme e i papà, a singhiozzo e mai nella auspicata totalità, partecipano a incontri formativi e a celebrazioni. E qui si apre invece un capitolo di gratitudini e di soddisfazioni che educatori e catechisti conoscono e custodiscono.
Il problema riguardo alla trasmissione della fede e al coinvolgimento dei genitori è reale. Sia in diocesi di grandi dimensioni, che in realtà più piccole. E ci si interroga su strumenti, modalità di approccio, atteggiamenti, modulazione di appuntamenti, per far comprendere che non si può ricondurre il tutto alla somministrazione di un sacramento, ma che in gioco c’è una possibilità di senso, di compiutezza.
“La trasmissione della fede non può avvenire senza la famiglia – afferma don Matteo Dal Santo, responsabile del Servizio per la catechesi della diocesi di Milano -, in positivo e in negativo. Avviene con il registro degli affetti. Perché si iscrivono i bambini? Spesso le motivazioni sono legate a tradizioni, oppure perché sono i bambini stessi che chiedono di iniziare il cammino. Il ruolo del ragazzo è molto importante, con i vantaggi e gli svantaggi che comporta, perché i genitori non sanno scegliere e per molti la catechesi diventa un impegno in più. Nella città di Milano contiamo famiglie che non iscrivono più i bambini per mancanza di tempo… non ci sta in agenda. Le famiglie oggi sono molto esposte e pressate da ogni parte. È una vita complicata. Avanza inoltre un’idea del “pieno”, non solo nella scuola, ma anche fuori e ciò è un ostacolo, perché la fede ha bisogno anche dei vuoti e della capacità di dare priorità. La catechesi può essere un impegno in più oppure una nuova alleanza educativa. Questo è il cuore della questione e nella nostra diocesi il coinvolgimento delle famiglie è una priorità”.
Coinvolgimento di mamme e di papà che deve passare da una testimonianza, da una vicinanza, dal porre dinanzi a questi genitori un volto non giudicante, ma accogliente. “C’è un modo di proporre, di chiedere, di esigere che viene recepito come un carico in più. E c’è un modo di porsi accanto alle famiglie che può essere percepito come un accompagnamento – spiega don Dal Santo -. Anzitutto si fa comprendere che le fatiche dei genitori sono capite, riconosciute, e che si offre un aiuto a viverle. Si possono creare dei legami di fiducia, che possono aiutare anche nella concretezza. La Chiesa può offrire non un impegno in più, ma la possibilità di un contesto educativo per i figli e di un contesto relazionale per le famiglie. In diocesi infatti stiamo spingendo molto sullo stile che sia di accompagnamento, che sappia parlare del vissuto delle famiglie”.
Dinnanzi alla realtà odierna molteplici sono le riflessioni che si avviano così come alcuni ripensamenti sui cammini di iniziazione cristiana che probabilmente hanno cristallizzato l’abitudine che vede strettamente legato un percorso scolastico scandito per età e per tappe, all’itinerario di catechesi che porta all’accesso ai sacramenti. Non rendendo di conseguenza consapevoli gli adulti che è fondamentale essere in un cammino di fede e di comunità. Sono sfide che evidenziano un’urgenza di evangelizzazione che riesca a fornire alle persone di oggi un senso al proprio vivere.
Assunta Steccanella, teologa, docente alla Facoltà teologica del Triveneto e anche catechista, mette al centro la comunità cristiana che dovrebbe scrollarsi di dosso modalità comunicative ormai lontane dalla quotidianità delle persone e che dovrebbe ripensare alle proprie proposte di catechesi per evitare di far coincidere i percorsi con il pass per la celebrazione dei sacramenti. Per far sì che la fede torni a essere per la vita.
“Una delle radici della situazione attuale è la complessità della quotidianità – afferma la teologa -. Il problema della trasmissione della fede non riguarda strettamente i genitori, è un problema che riguarda la forma con la quale si è consolidato il nostro essere comunità cristiana. Papa Francesco parla del predominio della sacramentalizzazione della fede, senza altre forme di evangelizzazione. Cioè, abbiamo ricondotto tutto all’aspetto sacramentale, dando per scontato che il resto di ciò che concerne la trasmissione della fede fosse automatico, com’era decenni fa. La vita cristiana si respirava, era parte della quotidianità. Oggi non è così. Si pensi al Natale, oggi svuotato della sua radice. È un Natale senza il Bambino. È uno svuotamento di coordinate che noi, purtroppo, non comprendiamo. Le famiglie si trovano svuotate di significato da dare a parole che sentono preziose. Altrimenti non porterebbero i bambini a catechismo. Perché per loro è una fatica portare i bimbi al catechismo. Questi genitori arrivano con una sensazione generica di una cosa buona, che ha un buon esito a livello etico, ma pensano anche che una volta compiuta l’iniziazione cristiana, tutto finisca lì”.
Qual è perciò il punto su cui lavorare, come comunità cristiana? “Dobbiamo impegnarci sulla qualità degli incontri con gli adulti, oltre a quella con i bambini. Incontri in cui si faccia percepire che la fede ha un intreccio fortissimo con la vita. Altrimenti è una vaga appartenenza religiosa. I genitori mandano i figli perché percepiscono che c’è qualcosa di buono e di questo dobbiamo anzitutto essere grati. I genitori arrivano con l’idea di accompagnare i figli a catechismo. Non percepiscono che ciò è finalizzato alla vita. Recepiscono il cammino di catechismo solamente nel suo essere finalizzato ai sacramenti. Quindi sarebbe bene scardinare il percorso che corre in parallelo alle classi di scuola. Altrimenti è più o meno un “biglietto” da pagare. Incastra il catechismo nella dimensione scolastica. Dovremmo offrire quindi qualcosa che non sia collegabile a un’istruzione da impartire per avere accesso a qualcosa”.
La teologa evidenzia un altro aspetto: “A mio avviso un altro lavoro da fare concerne le categorie concettuali. Abbiamo la necessità di uscire da un linguaggio che potrei definire “ecclesialese”, che dà per scontato che le persone a cui ci rivolgiamo sappiano e capiscano ciò di cui parliamo. È necessaria un’alfabetizzazione primaria per l’adulto e per i bambini”. Le comunità si debbono porre in un atteggiamento nuovo, che accoglie le provocazioni di una società sempre più digiuna di una cultura cristiana, sempre più convulsa. Nella consapevolezza che un punto resta fisso: senza una continuità tra ciò che i più piccoli ascoltano e vivono negli oratori e nelle parrocchie, e ciò che sentono e vedono in famiglia, il percorso si fa arduo: “Anche se noi facciamo alfabetizzazione primaria con i bambini – aggiunge Steccanella – se non c’è nessuna risonanza in famiglia, tutto cade nel vuoto”.
“Un altro problema di oggi riguarda i tempi – prosegue la teologa -, perché i tempi dell’azione pastorale non sono adatti alla vita delle famiglie. È un ritmo frenetico. Perché scelgano di trovare il tempo per queste attività, occorre che sentano che esse sono preziose. Per loro è naturale il fatto che portare il figlio a compiere un’attività sportiva o ludica sia una cosa preziosa. Non è così scontato che sia una cosa preziosa portare i piccoli a catechismo e partecipare alla catechesi per adulti. Se non si accorgono che ciò fa bene alla loro vita, difficilmente sceglieranno e continueranno a “timbrare” un biglietto per giungere ai sacramenti”.
Le comunità cristiane hanno conseguentemente un grande compito: dare una motivazione alle mamme e ai papà. Far comprendere che c’è una bontà nel percorso che va a rendere migliore, a dare un senso alla loro esistenza quotidiana. “È bene per mio figlio, è bene per me – conclude Assunta Steccanella -. Ciò deve passare, altrimenti non sceglieranno quello che noi proponiamo. Non si tratta solamente di linguaggi, perché le persone debbono trovare nelle comunità cristiane un luogo di sollievo per la loro umanità”.