martedì 17 settembre 2024
Riccardo Sollini in "Disservizio sociale. Come lo abbiamo disumanizzato" sottolinea il rischio che i diritti sociali diventino beni di consumo, una sorta di bonus da erogare
Rendiamo umano lo stato sociale: "Il welfare non può essere individualistico"
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In principio è stato un femore rotto e poi guarito. Le civiltà e la civiltà umana, secondo l’antropologa Margaret Mead, sono nate con un gesto di solidarietà nei confronti dell’altro. Non solo ciascuno, per parafrasare Martin Heidegger, è ciò di cui si prende cura. L’Occidente ha trasposto questo principio su scala sociale, vincolandolo al concetto di cittadinanza. È nato, così, tra Otto e Novecento, il welfare, come insieme di diritti a condizioni degne di vita, legati all’appartenenza ad una collettività. La dimensione comunitaria è stata, dunque, fin dal principio, un elemento costitutivo del welfare. Lo sfaldamento di tale pilastro – il concetto e la prassi di comunità – è all’origine dell’attuale crisi dei servizi sociali, trasformati in beni di consumo: è questo a rendere lo “Stato sociale” insostenibile dal punto di vista economico. Ne è convinto Riccardo Sollini, direttore della Comunità di Capodarco dell’Umbria che in Disservizio sociale. Come lo abbiamo disumanizzato, pubblicato da Pendragon, analizza con coraggio le criticità del sistema, tracciando alcune piste per un rilancio possibile.

«Se i diritti sociali diventano beni di consumo, una sorta di bonus da erogare, automaticamente non rispondono alle necessità collettive bensì a quelle individuali. Impossibile per le casse statali reggere un simile peso, specie ora che la popolazione invecchia», spiega l’autore. Non è, dunque, il welfare ad essere insostenibile bensì la sua contraddizione semantica: il welfare individualistico. Il paradosso è che questa logica si è imposta proprio nell’illusione di contenere i costi. «L’esigenza di risparmiare ha portato le istituzioni a parcellizzare i servizi in base a categorie di patologie: disabili, tossicodipendenti, riabilitazione, psichiatria, anziani. Ciascuna è stata poi ulteriormente articolata in sottogruppi rispetto alla gravità. Il modello di riferimento è quello ospedaliero, a cui le strutture finiscono per assomigliare. Non si prende in carico la persona ma la patologia o un suo aspetto e in base a questo si assegnano i finanziamenti. Troppi per alcuni, troppo pochi per altri, i quali, per le varie necessità, devono rivolgersi a più realtà socio-sanitarie. L’unico modo in cui queste ultime riescono a conformarsi ai criteri è quello di ricorrere all’economia di scala, ossia prevedere un elevato numeri di posti letto in modo da distribuire risorse e costi. A farne le spese sono quanti vengono presi in carico, costretti, per tempi lunghi, a volte l’intera vita, in pseudo-cliniche spersonalizzate e spersonalizzanti», sottolinea Sollini. L’alternativa, molto in voga, sono le cure domiciliari.

«L’assistenza, di fatto, viene scaricata sulla famiglia, a cui sono dati contributi magari sufficienti per colmare la singola necessità della persona in carico ma non per garantire una logistica compatibile con la dimensione domestica. Gli appartamenti, spesso piccoli soprattutto nelle città, vengono trasformati in corsie e i parenti devono improvvisarsi infermieri e operatori, in servizio h24 – sostiene il direttore di Capodarco dell’Umbria –. Questo sistema produce sofferenza negli interessati, sfaldamento delle relazioni e una bassa qualità del servizio». Qui entra in gioco la comunità, pensata fin dalle origini per alleggerire le famiglie conservando, però, i legami e consentendo all’interessato di ricevere assistenza professionale in un contesto più umano e umanizzante. «La tradizione della comunità di accoglienza è sempre stata quella di creare spazi diversi in cui dare opportunità di vita a persone che altrimenti non avrebbero trovato possibilità di portare avanti i propri sogni. Ad essere presa in carico non è solo la malattia ma la facoltà di costruzione di relazioni, di benessere, di realizzare, per quanto possibile, una vita piena». I servizi su base comunitaria, però, fanno fatica a sopravvivere in un modello altamente standardizzato e burocratizzato. L’investimento pubblico per sostenerli si rivela conveniente nel lungo periodo. «La ragione è semplice. Non si tratta solo di chiedere fondi allo Stato. Gli enti del cosiddetto Terzo settore non sono concorrenti del pubblico, sono partner complementari. Devono, pertanto, essere presenti nella costruzione delle politiche sociali perché, essendo radicati sul territorio, intuiscono prima degli altri i mutamenti, le nuove urgenze, le criticità. Sono, dunque, preziosi per disegnare servizi più efficienti e sostenibili».

Una sfida per lo Stato e per le stesse comunità. «I fondatori ormai invecchiano, la professionalizzazione del personale aumenta. Mai come ora è necessario trovare un equilibrio tra l’ideale da cui è nata l’esperienza e la sua gestione concreta. Come fare? Il punto di partenza è valorizzare gli operatori, farli sentire parte di un progetto, di un pensiero, di un sogno e non impiegati. È fondamentale, al contempo, un controllo gestionale adeguato in base alle risorse. E non chiudersi nell’auto-mantenimento. Le comunità devono continuare ad avere curiosità per il mondo, in uno scambio continuo».© riproduzione riservata

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