venerdì 23 giugno 2023
L’attenzione è un bene contendibile, ma il discorso pubblico è vittima di manipolazione
Una statua del re belga Leopoldo II imbrattata di vernice

Una statua del re belga Leopoldo II imbrattata di vernice - / Ansa

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Se c’è una cosa che fa male al discorso pubblico è l’approssimazione. Del resto, se c’è qualcosa che caratterizza il discorso pubblico è proprio l’approssimazione. Perché il mondo è vasto e variegato, per cui occorre farsi capire da tutti, non escludere nessuno. E per farlo, non resta che essere generici, vaghi a volte, aprendo la via anche alla manipolazione e all’inganno. Nel contesto in cui viviamo, quello dell’economia dell’attenzione (la nostra), vince la capacità di catalizzare il tempo e gli sguardi delle persone, piuttosto che la volontà di fornire un prodotto, per esempio l’informazione, ad alto livello di precisione e correttezza. Perché l’attenzione (la nostra) è un bene conteso dai venditori di qualsiasi cosa. Vendere informazioni, però, non è come vendere scarpe: informare (letteralmente il “dare forma”) è la condizione necessaria per l’atto di decidere. La nostra libera volontà si esercita sulla base della nostra conoscenza, la quale oggi, in buona parte, si costruisce nella relazione con i media, a cui accediamo attraverso diversi dispositivi, per lo più digitali.

Ogni giorno ci raggiungono post, video, notizie, articoli, libri su tutti gli argomenti e noi accumuliamo – a volte acriticamente – dati e informazioni con cui poi esercitiamo il nostro libero pensiero e discutiamo animatamente al bar. In questa piccola serie di articoli ci occupiamo della cancel culture, che non sfugge a questa regola, anzi ne è un esempio fulgido. Si tratta di un argomento di cui si discute moltissimo, eppure le fonti di informazione su di essa sono quasi sempre approssimative, quando non errate. Esistono studi e riflessioni in campo accademico sul tema, ma la loro accessibilità è assai limitata, rispetto alla mole di conversazioni che occupano il Web e i media. Lo si vede dalla quantità di errori, o inganni intenzionali, che accompagnano queste discussioni. La conseguenza è che la sola parola cancel culture accende nelle nostre teste un moto di stizza, perché la sua immagine pubblica, per così dire, è veicolata sempre in maniera aggressiva, polarizzata e, appunto, estremamente imprecisa. Difficile avere una posizione equilibrata. È un problema che riguarda i due campi a cui abbiamo accennato: l’economia dell’attenzione e il discorso pubblico. Il termine “economia dell’attenzione” risale all’inizio degli anni Settanta, quando l’economista Herbert Simon individuò proprio nell’attenzione un bene che, in una società sempre più ricca di informazione, è necessario amministrare con oculatezza.

Dal punto di vista del mercato, l’attenzione diventa così un bene contendibile, al punto che ogni tipo di stimolo è orientato anzitutto ad attirare l’attenzione del pubblico, prima che a fornire un contenuto o un servizio. In altre parole: più c’è informazione, meno c’è attenzione, la quale diventa un bene prezioso sul mercato dell’informazione. In questo mercato, ci sono due monete che hanno valore: la qualità dei contenuti e l’autorevolezza della fonte, persona o istituzione che sia. A ciò si unisce la potenza di fuoco di cui si dispone. Paradossalmente, l’autorevolezza risulta indebolita nel mondo comunicativo incentrato sui social network, perché si confonde con la popolarità, con la capacità di persuadere, di cavalcare l’onda, di sfruttare l’emotività imperante e dunque è estremamente volatile oltre che ingannevole. Siamo nel dominio della sfera pubblica, che il filosofo tedesco Jürgen Habermas contrapponeva al potere pubblico, cioè lo Stato, e alle élite. È quella che oggi chiameremmo società civile. Una società civile che trova sempre più facilmente una coesione proprio grazie agli strumenti di comunicazione digitale e alla rapida circolazione delle informazioni offerta dai social network. Così la sfera pubblica forma un’opinione pubblica, crea cioè delle rappresentazioni condivise e consensuali, ed è in grado di mobilitare all’azione collettiva. Dalla primavera araba fino a Capitol Hill lo abbiamo sperimentato in tutti i sensi. E così pure con la cancel culture.

Habermas diceva che l’opinione pubblica «regna ma non governa», per questo motivo occorre sempre riportare al giusto livello ogni analisi di movimenti, azioni, attivismi che sembrano poter rovesciare il mondo e spesso si spengono o vengono sotterrati nell’oblio.
Chiediamoci quindi: qual è il reale spazio di manovra del discorso pubblico relativo alla cancel culture?
E quanto esso nasce e si diffonde grazie alla elaborazione collettiva di una comunità in dialogo e non anche (o al contrario) per l’intervento di una élite capace di manipolare i mezzi di informazione? È per questo, forse, che il discorso pubblico risente e risuona solo di argomenti fortemente polarizzanti su questo fenomeno? Il dubbio è che noi tutti ci troviamo a litigare al bar attorno a cose che non esistono o che sono affatto diverse da come ce le rappresentiamo. Per incuria informativa, distrazione collettiva o per malafede. Le possibilità sono diverse e forse concorrono al medesimo risultato.
Facciamo un piccolo test: chi di noi è in grado, tracciata una linea verticale su un foglio, di segnare da un lato e dall’altro gli aspetti positivi e quelli negativi che la cancel culture (chiamiamola pure così, in modo dispregiativo) sta portando e porterà nella società di oggi e di domani?

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