mercoledì 25 settembre 2024
In un saggio Clara Mattei descrive i rapporti lavorativi senza tenere in conto i network cooperativi e rileggendo l'austerità di oggi con le categorie della crisi degli anni Venti
Se l’economia di mercato non è fondata sullo sfruttamento
COMMENTA E CONDIVIDI

Qualche volta accade che la lettura di un libro ci faccia vivere, per la durata di quella lettura, nel passato. È questa una virtù dei romanzi, forse la più grande: ci immergiamo nei primi capitoli de Il conte di Montecristo e davvero ci ritroviamo nella Marsiglia napoleonica; leggiamo Fontamara di Silone e viviamo, per qualche giorno, in compagnia dei “cafoni” del bacino del Fucino durante il fascismo. Ma ciò che è virtù per i romanzi diventa vizio per i saggi scritti da studiosi che dovrebbero aiutarci a comprendere il presente e il passato. Il saggio di Clara Mattei somiglia molto ai testi di inizio Novecento di economisti come Antonio Graziadei, Arturo Labriola o a qualche scritto giovanile di Achille Loria, autori che avevano cercato di utilizzare le categorie di Karl Marx per interpretare il capitalismo del loro tempo. L’economia è politica è un testo a tesi, scritta da quella che Gramsci avrebbe chiamata, con benevolenza, una “intellettuale organica”, appartenente a quella famiglia di intellettuali cui spetterebbe il compito della riforma morale e intellettuale della società. Le tesi del libro è implicita nelle sue ipotesi: «La parola d’ordine è una sola, ripoliticizzare l’economia, o meglio ri-democratizzarla, per fare in modo che i cittadini si riapproprino delle scelte più importanti che regolano le basi stesse della loro vita» (p. 18).

Gli strumenti usati per costruire la sua tesi sono quelli classici di Marx: il capitalismo fondato sul furto di valore ai lavoratori che sono i soli creatori di valore aggiunto, la categoria di classe e il conflitto tra classi, l’esercito (industriale) di riserva (p. 73). La proposta è riportare il carro della teoria economica al paradigma classico di Smith, Ricardo e Marx, perché loro «studiavano il capitalismo tramite la lente della classe e del conflitto tra le classi» (p. 25). Una frase che nella sua brevità contiene molte imprecisioni storico-teoriche: Smith non ha costruito la sua Wealth of Nations sull’ipotesi prima del conflitto (la sua teoria della invisibile hand svolge esattamente la funzione di armonizzare gli interessi); Ricardo aveva sì una teoria conflittuale ma il conflitto era tra capitalisti e rentiers, non tra capitalisti e lavoratori, che è invece la tesi specifica di Marx. Detto per inciso, l’idea ricardiana, ripresa e sviluppata soprattutto dagli economisti italiani Francesco Fuoco (1824) e Achille Loria (1880), che il conflitto radicale del capitalismo sia quello tra profitti e rendite, con la teoria di Marx esce dal dibattito. Dopo Il capitale (1867), il principale conflitto della società capitalistica divenne infatti quello tra capitalisti (tradotto velocemente con imprenditori) e lavoratori. Esce di scena il grande tema della rendita (e lo si vede anche nel libro della Mattei, che partendo da Marx sembra ignorarlo o confondere col profitto), che invece offrirebbe una potente chiave di lettura per capire il nostro capitalismo. Oggi sarebbe più utile un ritorno a Ricardo (come voleva fare un altro marxista, Piero Sraffa, e la sua scuola) che al materialismo storico di Marx: «Il capitalismo è uno specifico sistema socio economico nel quale i datori di lavoro usano i loro mezzi privati di produzione per assumere lavoro salariato in modo da produrre merci la cui vendita genere i profitti. I pilastri del sistema sono due: il lavoro salariato e i mezzi privati di produzione. Il motore del sistema è uno: il profitto» (p. 36).

Il saggio è poi pervaso da un afflato nostalgico nei confronti del lavoro pre-capitalista, sostenuto dall’ipotesi che il lavoro salariato ha creato «sudditi per sempre» (p. 42), ammiccando implicitamente ad una economia feudale dove i contadini-servi godevano forse di condizioni sociali ed economiche migliori. I «sudditi per sempre» continuano anche nella nostra economia, dove «la maggior parte delle persone è libera in quanto priva di mezzi di produzione. Viviamo grazie al fatto che possediamo una merce fondamentale – la nostra capacità di lavorare – e possiamo venderla sul mercato in cambio del salario indispensabile alla nostra sopravvivenza. La maggioranza della popolazione vende la propria merce cioè la capacità di lavorare (M) allo scopo di guadagnare denaro (D) per consumare altra merce (M’)» (p. 43). E così, nella società attuale «un dipendente di Starbucks firma “volontariamente” un contratto di lavoro senza ricevere alcuna pressione personale: la pressione nasce piuttosto dal suo bisogno economico. La peculiarità del capitalismo deriva proprio dal fatto che diversamente da quanto accadeva nelle società classiche precedenti, la coercizione che esso esercita è impersonare: non esiste una figura gerarchica che ci impone di vendere il nostro lavoro» (p. 44). Il lavoro, quindi è solo sfruttamento – «È lavoro, cioè sfruttamento» (p. 53). E quindi, quando entriamo in una pizzeria, o acquistiamo un libro in una libreria e alla fine diciamo “grazie” e il venditore ci risponde “grazie a lei”, ci stiamo tutti ingannando, perché, in realtà, siamo dentro un “gioco a somma zero”, o ci sono dentro i lavoratori di quella pizzeria e libreria, e non lo sanno ancora. Come se l’economia di mercato quotidiana non fosse anche, e forse soprattutto, un grande network cooperativo basato sulla divisione del lavoro e della conoscenza (a proposito di Smith), dove milioni di persone interagiscono tutti i giorni dando vita ad azioni collettive generative. Nessuno può negare che in questo network non ci siano alcuni tratti con relazioni a somma zero (o negativa), che non ci siano il potere e lo sfruttamento, e che in certi luoghi sono molto importanti; ma da qui arrivare a definire tutto il network dell’economia di mercato come fondato sul lavoro sfruttato significa raccontare una storia ideologica.

Infine, il libro è costruito sull’ulteriore ipotesi che sia possibile leggere l’austerità imposta oggi dalle istituzioni economiche e finanziarie globali e le sue conseguenze nefaste (per quasi tutti, tranne per le banche), utilizzando come paradigma la crisi economica-finanziaria degli anni ‘20 del secolo scorso, da cui derivarono, tra l’altro, fascismo, nazismo e la II guerra mondiale (pp. 97-160). La Mattei ha lavorato molto su quel periodo storico, lo conosce bene, e così ha utilizzato la conoscenza di quel momento decisivo della storia mondiale per dire qualcosa sul presente (e futuro) del nostro capitalismo. Operazioni comuni in questo campo, ma raramente felici: «Molteplici studi evidenziano che le principali ragioni per cui non ci riproduciamo più non sono altro che effetti deleteri dell'austerità: la vita troppo cara, la precarietà del lavoro, gli insufficienti livelli retributivi, la mancanza di servizi per i figli» (p. 160).

La Mattei conclude affermando di aver scritto questo libro «per condividere alcuni strumenti di autodifesa contro gli effetti accecanti e narcotizzanti di una narrazione dominante che ci viene offerta come l'unica davvero capace di raccontare il funzionamento della nostra economia e della nostra società» (p. 161). Intenzione certamente nobile. Ma forse non è una buona strategia combattere una narrazione che si ritiene sbagliata (e magari in certa parte può esserlo) con un’altra narrazione altrettanto ideologica e semplificata. Siamo nell’era della complessità, e le antiche analisi che volevano sollevare il mondo poggiando la leva su un unico punto di appoggio, non aiutano a comprendere né il valore di quelle teorie passato né offrono strumenti per migliorare il presente.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: