undefined - Web
Per l’orgoglio nipponico è stato uno schiaffo. Il Paese del Sol levante è scivolato dall’ultimo gradino del podio delle tre economie più ricche al mondo, scalzato dalla Germania. Un’altra ferita dopo quella inferta dalla Cina che, nel 2010, sopravanzò Tokyo, occupando stabilmente il posto di seconda economia, subito dopo gli Stati Uniti. Per analisti ed economisti il quarto posto giapponese è un ulteriore campanello di allarme che ridimensiona le ambizioni di Tokyo dopo la grande sbornia degli anni Ottanta del secolo scorso. A cosa va ascritto il “declino” economico del Giappone? Ebbene una causa c’è, un “responsabile” c’è: è il sistema universitario del Paese asiatico. La provocazione arriva dal sito di analisi Asia Times. Che non ha dubbi: dietro il rallentamento del Paese «c’è il progressivo deterioramento del suo “capitale umano”». «Con le nascite in calo da decenni e le iscrizioni universitarie rimaste stabili, la forza lavoro qualificata del Giappone ha raggiunto il picco alla fine degli anni ’90. Stiamo ora assistendo ad un lungo tramonto», rincara il sito. Tutto questo mentre i “vicini” diventano sempre più agguerriti. A cominciare dalla Cina. Il gigante asiatico sta puntando tutto sulla tecnologia per lasciarsi alle spalle il ruolo di “fabbrica del mondo”: la percentuale di studenti cinesi che si specializzano nelle materie scientifiche è più del doppio di quella dei colleghi nipponici. Ma anche la più piccola Corea del Sud, con una popolazione più ridotta e un profilo demografico simile al Giappone, scommettendo sull’iper-specializzazione accademica, «ha eroicamente superato il Giappone nei settori dei semiconduttori, dell’elettronica di consumo, dei prodotti chimici e delle costruzioni navale».
Il risultato è un continuo declassamento del sistema Giappone. Nella classifica della competitività digitale, stilata dall’International Institute for Management, Tokyo perde posti anno dopo anno: nel 2023 il Giappone è scivolato al posto numero 32. In Asia hanno fatto meglio del Sol Levante la Corea del Sud (sesto posto), Taiwan (nono), Hong Kong (decimo) e Cina (diciannovesimo).
I dati catturano impietosamente il declino accademico del Paese. Nel 2022, le università giapponesi hanno sfornato lo stesso numero di laureati in scienze ed ingegneria del 1990. A distanza di 30 anni non c’è stato, dunque, il salto quantitativo atteso, nonostante il raddoppio dei tassi di iscrizione. Ma anche dal punto di vista qualitativo le cose non vanno meglio. Nello stesso lasso di tempo, i brevetti annuali depositati sono scesi dal 25% del totale mondiale al 3%. Un numero risibile. Alla fine degli anni Novanta, Tokyo “copriva” il 9% degli articoli scientifici a livello mondiale, nel 2020 la sua quota è crollata al 3,4%.
Nella classifica 2023 delle 100 migliori istituzioni accademiche, stilata dalla rivista Times Higher Education, comparivano soltanto due atenei nipponici. L’Università di Tokyo campeggiava al 39esimo posto nella lista – in calo rispetto al 35esimo dell’anno precedente – mentre l’Università di Kyoto è slittata al 68esimo posto dal 61esimo occupato 12 mesi prima. Dieci anni fa, il ministero dell’Istruzione aveva fissato l’obiettivo di piazzare almeno 10 università tra le prime 100 al mondo. Obiettivo fallito. Ma per gli analisti il peggio – per il Paese che oggi ha la popolazione più anziana al mondo – deve ancora venire. Perché la crisi formativa giapponese è intrecciata profondamente all’altro vulnus che minaccia di oscurare il futuro: la “depressione” demografica. Nel 1992 in Giappone c’erano 2,05 milioni di diciottenni, nel 2022 il loro numero è sceso a 1,12 milioni. Si prevede che la “quota” giovani si contrarrà ulteriormente a 880.000 entro il 2040.
Il declino della popolazione studentesca viaggia in parallelo con lo scadimento della qualità accademica. Ne è convinto Akiyoshi Yonezawa, professore e vicedirettore dell’International Strategy Office presso l’Università Tohoku di Sendai, che riassume brutalmente la situazione: «Oggi è più facile entrare ed è più facile laurearsi. Ho però dei dubbi sul fatto che gli studenti acquisiscano davvero le competenze e le conoscenze necessarie», ha spiegato al sito The Hechinger Report.
Rivoluzione o involuzione? Involuzione, secondo il docente. Determinata da un fattore: sono state allentate le maglie che regolavano gli accessi. Secondo i dati forniti dal ministero dell’Istruzione, mentre la percentuale media di candidati accettati nel 1991 era di 6 su 10, oggi le università giapponesi accettano 9 ragazzi su 10. È saltata, insomma, la selezione. Facile afferrare il perché: gli studenti stanno diventando merce rara e, dunque, sempre più ambita. Tra le università è aperta la caccia, mentre il serbatoio degli studenti stranieri resta “striminzito” per la scarsa capacità del Giappone di attrarre “cervelli”. Se l’offerta accademica resta molto alta – il Paese conta 179 atenei pubblici ai quali vanno aggiunte 603 università private – è inevitabile che ci saranno delle ricadute a causa della restrizione del numero dei candidati. Tra il 2000 e il 2020, undici istituzioni accademiche hanno chiuso i battenti e si sono contate 29 fusioni (rispetto alle tre realizzate nei cinquanta anni precedenti). Si calcola che entro il 2050 ci sarà un eccesso di domanda formativa pari al 20 per cento.
Anche se si rimetterà in moto la “macchina” demografica – una sfida non più rinviabile, come ha detto più volte il primo ministro Fumio Kishida –, ci vorrà troppo tempo perché si metta in moto un nuovo circolo virtuoso. Una lezione per tutti.
32°
La posizione occupata dal Giappone nella classifica della competitività digitale stilata dall’International Institute for Management
3%
I brevetti annuali depositati dal Giappone sul totale mondiale, rispetto al 25% dei brevetti del 1990
39°
La posizione dell’Università di Tokyo nella classifica 2023 stilata dalla rivista Times Higher Education, in calo rispetto al 35° posto dell’anno precedente