Una delle scelte cruciali della vita di una società benefit è quella in merito alla modalità con la quale viene elaborata la valutazione di impatto sociale. Ogni società benefit, infatti, è tenuta a redigere unitamente al bilancio civilistico una relazione annuale concernente il perseguimento delle finalità di beneficio comune. Nell’adempiere a tale prescrizione legislativa, i dirigenti della società e il responsabile di impatto sono tenuti a scegliere una modalità di valutazione che utilizzi uno standard elaborato da un soggetto esterno all’impresa e che risponda a criteri di scientificità, chiarezza e trasparenza. Invero, la legge istitutiva delle società benefit non impone una modalità predeterminata, ma lascia al management e al responsabile d’impatto la possibilità di scegliere una metrica di valutazione che meglio descriva i tratti distintivi e le caratteristiche specifiche dell’impresa in questione nello svolgimento della sua ibrida mission aziendale in grado di generare un impatto positivo sulla società.
Lo strumento attualmente più utilizzato è sicuramente quello del Benefit Impact Assesment (BIA) elaborato dall’organizzazione non profit BLab e che consente di conseguire la certificazione B-Corp riconosciuta dal mercato a livello globale. Esso è stato formulato per descrivere la complessità della vita aziendale nel generare benefici, ed è ispirato principalmente da criteri di matrice americana e anglosassone. E quindi – secondo quanto raccolto dalle esperienze di diverse imprese associate ad Assobenefit – esso in alcuni casi risulta di difficile applicabilità alle Pmi italiane. In virtù della specificità delle realtà imprenditoriali italiane, quindi, nel nostro Paese si stanno facendo strada anche nuovi strumenti tra i quali lo Strumento di Autovalutazione della Buona Impresa (SABI) sviluppato dalla Fondazione Buon Lavoro, la matrice dell’economia civile elaborata in seno alla Scuola di economia civile, e il questionario di autovalutazione partecipata di NeXt Nuova Economia.
La diffusione di una varietà di strumenti valutativi non può che essere accolta come una buona notizia poiché la scelta da parte delle imprese delle metriche necessarie è intrinsecamente e profondamente strategica. Essa, infatti, non rappresenta esclusivamente uno strumento di accountability ma anche un vero e proprio strumento di gestione che inerisce all’intera vita aziendale. La metrica prescelta per la valutazione, infatti, non solo deve comunicare in maniera trasparente ai diversi stakeholder i risultati nella realizzazione del beneficio comune, ma nella sostanza deve anche contribuire a dare forma anche ai comportamenti e alle scelte del management che in ultimo determinano il vantaggio competitivo, la profittabilità e la sostenibilità dei percorsi aziendali.
Alla luce di ciò si comprende altresì facilmente come la prescrizione legislativa improntata alla libertà di scelta tra diversi standard garantisce da un lato in maniera compiuta il rispetto di una biodiversità imprenditoriale in seno al mercato, e dall’altro lascia al management un ampio margine di azione all’interno del perimetro di mission duale scelto dagli azionisti. In breve, se lo scopo sociale è genuinamente ibrido, la valutazione di impatto andrà a costituire necessariamente un punto focale per il management poiché essa costituirà non solo uno strumento di valutazione di quanto realizzato in ambito sociale ma piuttosto un insieme di criteri, indicatori e direttrici di azione che informeranno la strategia generale in particolare in una prospettiva di medio- lungo periodo. In questa prospettiva, l’imposizione legale di uno o più metodi sarebbe eccessivamente intrusiva e distorsiva per la vita delle imprese e di conseguenza perniciosa per la loro profittabilità e la loro capacità di generare valore.