Alla fin fine, la morale della moda è tale perché necessita un pensiero etico che possa contribuire alla trasformazione, alla conversione del sistema stesso. Non può esservi moda senza morale e non perché i centimetri delle gonne non siano pudichi, ma perché troppi elementi socioeconomici ed estetici legati alla moda generano ingiustizia. La tradizione ebraica, che è uno dei capisaldi della civiltà europea, insegna nella Bibbia che Dio ha parlato al profeta Mosè con le due tavole della Legge. Queste tavole contengono i comandamenti che poi la tradizione cristiana ha sintetizzato con il termine Dieci comandamenti. Esse sono una delle possibili basi per una morale, ma quando si ascolta la riflessione ebraica, ben più di quella cristiana, si viene a capo di un fatto estremamente interessante. I dieci comandamenti – cioè le tavole della Legge – sono, a ben guardare, completamente inutili. Cioè Dio sa perfettamente che sono inutili, e questo lo dice una certa teologia ebraica, prima e cristiana poi.
L’uomo può raggiungere quel grado di coscienza dei cosiddetti comandamenti senza i comandamenti “divini”. Non c’è bisogno di un Dio per ordinare quelle ingiunzioni che sono riconoscibili ed evidenti per poco che l’essere umano vi rifletta. Che non si debba uccidere, non rubare, non desiderare ciò che non è di proprietà, rispettare chi ti ha generato e finanche quel Dio che si pensa e crede essere il Creatore di tutto, ebbene l’essere umano dovrebbe comprenderlo senza troppi sforzi. Ma allora perché Dio decide di consegnare questi comandamenti, di dare le tavole della Legge? Questa domanda, che è ripetuta lungo il corso dei secoli, rimane sempre valida. La risposta oggi è ancora più evidente nelle società moderne che hanno fatto dell’autonomia da ogni legge divina il fondamento della libertà umana. L’uomo non ha bisogno di comandamenti per essere etico, per rispettare il bene dell’altro e il proprio, per essere in comunione con il creato.
Se le mentalità ebraica e moderna ipotizzano il fatto che non sia necessario l’intervento di Dio per avere un’indicazione etico-morale, allora perché delle leggi, dei comandamenti? Non per far sentire l’uomo in colpa, ma per liberarlo dalla propria schiavitù. Per dargli un’indicazione o ancora meglio per ricordargli quale sia la rotta da seguire per la vita in pienezza. Cioè l’essere umano non ha bisogno dei comandamenti per fare il bene, ma ha bisogno che Qualcuno o qualcosa lo aiuti a ricordare dove sia la rotta. Per questo la Legge degli ebrei non è quello che una certa interpretazione cristiana ha sempre attribuito all’ebraismo. Le dieci “parole” non sono leggi, sono un pedagogo, un maestro per condurre il pio ebreo alla vita e non alla morte, alla libertà e non alla schiavitù. Così d’altro interpreterà anche san Paolo dicendo che la legge è un pedagogo.
Ora, terminando questa critica della moda pura che apre alla questione della morale contemporanea, la digressione sui comandamenti appare inutile o fuori luogo. Ma non è così. Anche se talvolta ho utilizzato il sintagma “dover essere”, che indica una situazione ipotetica e di bene pensato, non è stato per fare del moralismo ma per confrontarmi con dei principi di filosofia morale o semplicemente della morale. La moda, in fondo, non ha bisogno di comandamenti, perché chi opera in essa sa perfettamente ciò di cui c’è bisogno, politici compresi. Eppure, un decalogo della moda morale potrebbe aiutare a tenere a mente i punti che sono stati presi in considerazione. Se riprendiamo il contenuto dei capitoli, a modo di conclusione sintetica, il primo e fondamentale comandamento potrebbe essere: Non avrai altro Capitale all’infuori della Moda etica. Infatti, si è visto che è la moda improntata all’etica a fare da apripista al nuovo sistema dell’abbigliamento alla moda. Non basta praticare la moda etica, bisogna anche pensarla: è quel che ho tentato di fare. Per questo motivo, non nominare il Lusso invano, come fosse la divinità da adorare in perpetuo.
Il secondo comandamento si riferisce al principio vergogna che instaura tutto il processo di acquisto compulsivo, di disputa sociale e infine di continua rincorsa alla perfezione nella produzione. Per sopravvivere al peso della vergogna che mette in atto tanti altri sentimenti, sensi di colpa e azioni talvolta sconsiderate, bisogna ricordarsi di santificare la modestia. Siamo al terzo comandamento. La modestia non è più, o non è soltanto, il fatto di coprire quelle parti del corpo che destano ancora la curiosità morbosa dell’uomo. La modestia è fatta di tanti aspetti che vanno dal rispetto del lavoro altrui a quello delle risorse della natura. La modestia richiama il pudore che va, in un certo qual modo, onorato. Onora il pudore recita il quarto. Non si tratta del pudore sessuale, ma del fatto che se non si rispetta un certo pudore sociale, la moda diventa una grande ingiustizia tra chi ha i mezzi e chi non li possiede. Certo si può affermare che chi ha i mezzi li ha conquistati a caro prezzo, ma non basta allora la sfrontatezza impudica delle apparenze. La moda deve fare di più perché i morti ci sono stati e ci sono ancora; siamo al quinto comandamento: Non uccidere i lavoratori e le lavoratrici del tuo sogno con una produzione sconsiderata, con un dispendio illimitato. Il lavoro altrui è troppo prezioso per abbatterlo con l’incuria.
Il famoso sesto comandamento, quello degli atti impuri – oggi tornato all’originario testo biblico che ricorda di non commettere adulterio –, ha un’applicazione interessante nel non cedere alla dipendenza da consumo, creando un falso legame non con gli oggetti ma con l’accumulo di esperienze, come abbiamo visto nel terzo capitolo. Non rubare i vestiti degli altri. I vestiti possono essere rubati, come si possono rubare i diritti di proprietà intellettuale o industriale, legati alla creazione delle collezioni. E come si rubano, si gettano. Non rubare i vestiti degli altri implica il profondo rispetto nei confronti dell’oggetto. La moda etica sviluppa appunto un nuovo rapporto con l’abbigliamento tale da prendersene cura, come elementi preziosi di un’esistenza. Perché quegli oggetti sono il frutto di lavoro, di risorse, di una storia che deve essere tracciabile.
Non dire falsa tracciabilità del prodotto è il fondamento del nuovo corso della moda che o sarà trasparente o non sarà più, pena il decadimento di tutta la filiera, tornando all’abito su misura della sarta. Perché si rimanga in questa ottica di rispetto, desiderare l’apparenza altrui è fonte di un disordine che va fuggito, perché è proprio la ricerca di questa ostentazione che porta alle azioni più sconsiderate. Non desiderare l’apparenza degli altri: questo nono comandamento, evidente per sé, apre all’ultimo, il decimo, che invita a non desiderare il lusso degli altri, perché ciascuno deve raggiungere quello che più gli corrisponde, in una vera libertà sociale ed estetica. Questo decalogo sintetizza quanto ho cercato di elaborare e proporre non tanto in tono di consigli – che esulano da una possibile riflessione filosofica morale – ma secondo la prospettiva di una valutazione degli atti che sono orientati alla vita o alla morte delle apparenze della moda. Vi è un’apparenza che può costruire la società, una che abbatte le relazioni umane. La moda ha il grande vantaggio di toccare più piani al tempo stesso, da quello economico e sociale a quello delle apparenze, dell’estetica e dell’ostentazione. Tutto in uno, un all inclusive della società moderna. E se la morale è quella degli atti e delle virtù, cioè della pratica e delle abitudini, come diceva Hannah Arendt citata in introduzione, così anche la “moda” della morale deve essere quella che si costruisce attraverso atti veri, impegnati, sociali e politici. Tutti sono indispensabili: da quello del consumatore responsabile e delle associazioni che federano le energie per diffondere nuovi modi di vivere la moda a quelli dei produttori e dei creativi che godono di un’aura che può servire alla causa comune di una conversione del sistema della moda. Per riprendere quanto detto nell’ultimo capitolo, la conversione della moda non può essere generata dal semplice cambio di un vestito. Non è indossando nuovi vestiti (da intendere qui come semplici abitudini) che la moda può rigenerarsi. È nella sinergia di tutti questi atti che può innescarsi un nuovo corso, una nuova pagina nella storia della moda. Perché non pensare la moda come portatrice di novità anche sotto il profilo morale e non delle sole tendenze dell’abbigliamento? Se molta parte della moda lo sta facendo – tra l’altro con la campagna del gender – la si attende anche sulle battaglie della giustizia sociale e dell’ecologia. Così non sarà più una semplice moda, ma un settore che produce costumi – abitudini e abiti – veri, buoni e belli. Sarà morale perché è moda, cioè abitudini, costumi, habitus e virtù.
(Tratto da «Per una morale contemporanea », Mimesis Edizioni)