mercoledì 9 novembre 2022
Secondo due documenti siglati nel continente, a chi fugge da siccità e inondazioni deve essere consentito non solo loro di lavorare, ma di avere accesso a prestiti e percorsi di cittadinanza
Bimbi in Kenya

Bimbi in Kenya - Ansa

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Al tempo delle grandi mutazioni climatiche e degli esodi di massa cui spesso i fenomeni estremi costringono, ha ancora senso parlare di confini e barriere? Ha ancora senso, e dignità, intrappolare milioni di persone nei territori che più subiscono inondazioni e siccità, territori che, magari, poco o nulla hanno contribuito all’intensificarsi di quegli stessi eventi? Se ne discute, in questi giorni, anche alla Cop27, la conferenza sul clima in corso a Sharm-El-Sheikh, in Egitto. E mentre l’Occidente erige barriere, mentre un pezzo di mondo crede di alzare muri invisibili anche sui mari, c’è una regione che prova a darci altri esempi, altre possibilità. Perché di migranti climatici, questa la definizione che viene data di milioni di persone costrette alla fuga, continueremo a sentire parlare sempre più spesso. E la testa, da un’altra parte, non possiamo girarla. «Oggi, le persone più colpite e vulnerabili non sono al centro delle discussioni internazionali sul clima – sottolinea a L’Economia Civile Christos Christou, presidente internazionale di Medici senza frontiere (Msf) –. Saremo alla Cop27 per chiedere una soluzione che tuteli la salute umana. Chi è meno responsabile di questa crisi sta pagando il prezzo più alto: con la propria salute e con la propria vita».

Grave la siccità nel Corno d'Africa

Grave la siccità nel Corno d'Africa - Ansa

Era il febbraio 2020 quando gli Stati africani dell’Autorità intergovernativa di sviluppo (Igad), un’organizzazione formata da otto Paesi del Corno d’Africa, adottavano a Khartum, in Sudan, il Protocollo sulla libera circolazione delle persone nella regione, il primo documento specificamente rivolto alle popolazioni in fuga da disastri naturali e cambiamento climatico. Chiunque in quei territori fosse colpito da un evento estremo, ha dunque il diritto di entrare in uno degli altri Paesi dell’Igad. Di più, quel documento stabilisce anche per il migrante climatico il diritto a poter lavorare e, progressivamente, affermare il diritto di stabilirsi e di risiedere proprio dei cittadini dello Stato membro che lo ospita. Una vera innovazione, passata forse sotto troppo silenzio anche perché, di lì a pochi giorni, il mondo sarebbe stato investito dalla pandemia di Covid-19. «Msf assiste direttamente alle conseguenze dei disastri causati da eventi climatici estremi, assistiamo anche alla povertà e ai conflitti intensificati dall’emergenza climatica in molte parti del mondo – testimonia Christou -. Non c’è dubbio che queste situazioni continueranno a spingere più persone sulla strada. Qualunque sia la ragione dell’esodo delle persone, ciò di cui hanno più bisogno è trovare umanità. Vediamo persone picchiate alle frontiere, lasciate per mano dei trafficanti nel Me diterraneo o nella foresta pluviale di Panama, o bloccate senza prospettive nei campi in Grecia o in Bangladesh. Le persone hanno bisogno di essere trattate con dignità e di avere accesso alle cure mediche e fisiche necessarie, cosa che è tutt’altro che garantita per molte persone in movimento».

Il tema dei migranti climatici – saranno 216 milioni nel mondo entro il 2050 – è centrale e dall’Africa arrivano nuove idee per la loro protezione. A luglio di quest’anno, infatti, ancora l’Igad e la Comunità dell’Africa orientale (Eac), organismo economico che riunisce sette Paesi del continente, hanno firmato a Kampala una Dichiarazione su migrazione, cambiamento climatico e ambiente, con l’obiettivo di stabilire cornici di riferimento politico-legali a protezione delle persone colpite da eventi meteorologici avversi.

Il documento contiene 13 impegni per rafforzare interventi di adattamento e resilienza delle comunità locali, per adottare normative nazionali e strategie regionali comuni e per introdurre regole che incrementino i benefici derivanti dalle rimesse, dal commercio e dagli investimenti. Incoraggiati anche gli investimenti nell’economia verde e circolare e il rafforzamento dei centri studi sul clima. È stato inoltre stabilito un gruppo di lavoro interministeriale sul cambiamento climatico, l’ambiente e le migrazioni e lo sviluppo di piani che prendano in considerazione la crescita dell’urbanizzazione come risultato dell’impatto del cambiamento climatico sulle aree rurali. Viene poi chiesto alle istituzioni finanziarie e alle banche di sviluppo multilaterali di estendere sgravi finanziari per i Paesi che ospitano migranti climatici e sfollati da disastri naturali.

L’Africa, insomma, si muove, in un contesto in cui il migrante non solo è visto come persona da accogliere e proteggere, ma anche come persona a cui garantire accesso al mondo del lavoro e del commercio, offrendogli quindi formazione e opportunità di reddito alternative. La stessa libera circolazione delle persone consente migrazioni stagionali e nuove opportunità in uno scenario regionale in cui il solo Corno d’Africa rischia il quinto anno consecutivo di mancata stagione delle piogge. Servono però accordi, intese, norme, soprattutto una certa volontà politica. Formalmente, la stessa definizione di «rifugiato climatico» è impropria perché non è riconducibile alla definizione della Convenzione sui rifugiati di Ginevra del 1951. Il gap normativo sul fronte del diritto d’asilo è evidente. I passi compiuti da Igad e Eac riconoscono invece la migrazione come uno strumento di adattamento vitale al cambiamento climatico, che dovrebbe essere utilizzato in maniera sicura per massimizzare protezione e sviluppo. «L’emergenza climatica rappresenta una seria minaccia per la salute di milioni di persone in tutto il mondo, riguardando aria pulita, acqua potabile sicura, approvvigionamento alimentare nutriente e un riparo sicuro – aggiunge Christou –. Vediamo molte tendenze preoccupanti, come ripetute gravi inondazioni in luoghi come il Sud Sudan e il Niger. Negli ultimi anni abbiamo risposto a diversi cicloni ad alta intensità in Mozambico e Madagascar. La Somalia e la regione del Corno d’Africa stanno affrontando la peggiore siccità degli ultimi 40 anni. Queste situazioni si stanno verificando in un mondo che ha subito un innalzamento della temperatura di 1,2 gradi centigradi, un riscaldamento aggiuntivo avrà ulteriori conseguenze catastrofiche per molte persone in tutto il mondo».

I Paesi del Corno d’Africa contribuiscono per lo 0,1% alle emissioni di gas nocivi, ma la siccità ha già colpito quest’anno 36 milioni di persone nella regione e portato alla morte di 8,9 milioni di capi di bestiame. I livelli di malnutrizione in Etiopia, Somalia e Kenya sono allarmanti: nella sola Somalia oltre un milione di persone sono state costrette a lasciare i propri villaggi. In altri Paesi, come il Sudan, da maggio a oggi le inondazioni hanno danneggiato oltre 200 strutture sanitarie. Lo scorso anno, il Burundi ha dovuto dichiarare lo stato di emergenza per alluvioni che hanno colpito case e raccolti. Nel 2021, oltre 2,6 milioni di persone sono state sfollate nell’Africa sub-sahariana a causa dei fenomeni climatici estremi. Senza contare che la questione climatica in molte aree spesso si somma ad altri fattori di crisi, dai conflitti alla presenza di gruppi terroristici, dalla povertà alla disuguaglianza sociale. Tutti fattori moltiplicatori, a cui l’emergenza climatica aggiunge il suo peso e a cui toccherà trovare una soluzione equa. «Questa crisi – avverte ancora Christou – sta colpendo le persone e le comunità più vulnerabili e acuirà le disuguaglianze esistenti. Gli esperti prevedono che gli impatti sulla salute aumenteranno man mano che il pianeta continua a riscaldarsi, il che a sua volta comporterà bisogni umanitari molto più elevati. Come professionisti sanitari che rispondono a queste situazioni, e sapendo che peggioreranno considerevolmente, siamo estremamente allarmati».

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