Il futuro “ecologico” della Terra è legato alla fusione nucleare. Ci sono pochi dubbi a riguardo, tanto che negli ultimi anni a livello mondiale sono aumentate le collaborazioni e i fondi per la ricerca. I progetti sono diversi e numerosi tanto che è difficile censirli tutti. «Ma se parliamo di utilizzo commerciale della fusione credo che non ci arriveremo prima del 2050 – sottolinea Piero Martin, fisico e professore ordinario all’Università degli Studi di Padova, responsabile per la fisica del progetto Dtt –. Anche se già prima pensiamo verrà collaudato un prototipo di centrale a fusione nucleare e verranno sciolti gli ultimi nodi riguardanti questo processo fisico e la sua gestione».
«La disponibilità commerciale di reattori che producano energia elettrica convertita da energia delle reazioni di fusione dei nuclei di deuterio e trizio (due isotopi dell’idrogeno, il primo dei quali è abbondante in natura nell’acqua, il secondo invece va creato, ndr), o di altre reazioni di fusione nucleare, richiede ancora lo sviluppo di alcuni aspetti di natura principalmente tecnologica e di natura regolamentare – chiarisce Piergiorgio Sonato, presidente del Consorzio RFX –. Per prima cosa occorre dimostrare che i materiali che si utilizzeranno nella realizzazione dei reattori possano resistere per molti decenni senza degradarsi alle condizioni di lavoro in cui operano. In secondo luogo è necessario dimostrare che siamo in grado di produrre il trizio, isotopo dell’idrogeno che non esiste in natura perché decade spontaneamente in deuterio in poche decine di anni, attraverso una reazione all’interno del reattore stesso tra il Litio e i neutroni prodotti dalle reazioni di fusione stesse. Questo processo di auto-fertilizzazione può essere realizzato in diversi modi, ma non ha ancora avuto una conferma sperimentale. Iter, l’esperimento in costruzione in Francia, è la prima macchina in cui si potrà sperimentare un prototipo di questo sistema».
Il terzo aspetto, dice ancora Sonato, «che richiede una solida conferma per poterla trasferire su un reattore commerciale è la gestione delle particelle residue che bisogna estrarre dal reattore e del flusso di calore ad esse associato, al fine di mantenere il tasso di reazioni di fusione per tempi lunghi». E per sviluppare quest’ultimo aspetto l’esperimento Dtt-Divertor Tokamak Test, in fase di progettazione e realizzazione nei laboratori Enea di Frascati (con la partecipazione di Eni, Cnr, Infn, Consorzio RFX, Consorzio Create, Politecnico di Torino, Università degli Studi di Milano Bicocca, Università degli Studi Tor Vergata, Università degli Studi della Tuscia e Cetma), rappresenta l’anello di ponte tra Iter e il reattore dimostrativo che per primo sarà chiamato a produrre appunto energia elettrica verso la metà di questo secolo. In un articolo intitolato “L’illusione della fusione nei programmi di ricerca” pubblicato su formiche.net, Ernesto Mazzuccato, fellow dell’american Physical Society e grande esperto di fusione nucleare, afferma che «non sapremo prima della fine di questo secolo se sarà possibile sostituire l’energia dei combustibili con quella dei reattori a fusione Deuterio-Trizio. Quindi pensare di usare reattori del tipo Iter per fermare il cambiamento climatico sarebbe un errore mortale, poiché abbiamo seri dubbi sulla loro capacità di farlo e, in ogni caso, sarà troppo tardi. Ciò di cui abbiamo bisogno è sviluppare al presto nuovi tipi di reattori».
A questi aspetti di natura scientifico tecnologica si aggiunge un altra problematica: l’aspetto normativo che regola tutte le fasi del processo industriale, dalla progettazione allo smantellamento di un impianto a fusione. « In uno scenario globale che evidenzia la necessità di una decarbonizzazione del sistema energetico, la soluzione tecnologica della fusione, una volta portata a livello industriale, permetterebbe di generare grandi quantità di energia a zero emissioni e con un processo sicuro, virtualmente illimitato», spiega Eliana De Marchi, responsabile Magnetic Fusion Technologies di Eni. Il report Fusion Outlook 2023 dell’Iaea evidenzia la presenza di circa 140 dispositivi di fusione a livello globale. «Se storicamente questa tecnologia è stata sviluppata dal comparto pubblico, grazie ad esempio al progetto internazionale Iter, una nuova spinta è arrivata dal settore privato – aggiunge ancora De Marchi –. Stiamo quindi assistendo a un significativo passaggio dal mondo della ricerca pubblica a una fase di industrializzazione della fusione, anche grazie a nuove collaborazioni pubblico-private. Eni ha abbracciato e anticipato questa prospettiva, concentrando i propri sforzi su una delle tecnologie più studiate, ovvero quella del confinamento magnetico ed è protagonista con Enea e alcune delle principali università e centri di ricerca d’eccellenza italiani del progetto Dtt, probabilmente il più grande esperimento di public-private partnership in ambito fusione. Eni, inoltre, dal 2018 è azionista strategico di Commonwealth Fusion Systems (CFS), lo spin-out del Mit di Boston, una delle compagnie più promettenti in questo ambito».
«La stima della spesa complessiva nel campo della fusione oggi è difficile. Tuttavia, per avere un‘idea, si consideri che secondo la Fusion Industry Association gli investimenti privati nel settore della fusione hanno superato i 6 miliardi di dollari negli ultimi 3 anni – conclude Marco Valisa, direttore del Consorzio RFX –. Il governo britannico ha stanziato 20 miliardi di sterline sul lungo periodo per la costruzione di un reattore dimostrativo. La Germania ha aggiunto 1 miliardo di euro alla ricerca nel campo fusionistico per i prossimi 5 anni, sostenendo sia il confinamento magnetico sia quello inerziale. Il costo di ITER ad oggi è dell’ordine di 25 miliardi di euro, cui si dovranno aggiungere i costi per il suo funzionamento».