La raccolta del frutto del cacao, la cabossa - Ansa
La gran parte di loro non ha mai visto una barretta di cioccolato, né ne conosce il sapore. Eppure i loro machete si alzano e si abbassano tutto il giorno su piccoli appezzamenti di terreno: il frutto del cacao, la cabossa, ha forma ovale e buccia di un colore che va dal verde al giallo al rosso. Dal suo interno, i semi, migliaia di piccoli e piccolissimi produttori estraggono le fave di cacao, “gioiello” il cui mercato internazionale vale 21,1 miliardi di dollari e il cui prezzo globale è ai massimi storici. A settembre i future sul cacao hanno toccato i 3.870 dollari per tonnellata, livello record da 44 anni a questa parte, a causa del calo della produzione in Africa occidentale. Costa d’Avorio (44%) e Ghana (20%) sono i due principali Paesi di origine del cacao a livello globale, seguiti dall’Ecuador (7%) e proprio l’aumento dei prezzi sui mercati internazionali rappresenta una chance importante per gli agricoltori e le loro famiglie, gran parte delle quali vive in condizioni di povertà. Ottenere una maggiore remunerazione dalle grandi società straniere che acquistano le materie prime, spesso attraverso aziende locali, è l’obiettivo dei principali Paesi produttori e delle organizzazioni di base, che evidenziano come gli agricoltori siano oggi addirittura più poveri di quanto non lo fossero negli anni Settanta, considerato anche l’aumento del costo della vita.
La filiera del cacao, come quella del caffè e di altre materie prime, è tra quelle in cui da anni emergono problematiche relative alla sostenibilità sociale e ambientale. Di più: negli anni sono state molte le denunce di violazione dei diritti umani, anche per il frequente utilizzo di manodopera minorile. Bambini nelle piantagioni, insomma, bambini che di barrette non ne vedono e la cui infanzia è violata. Se l’industria del cioccolato globale riesce a moltiplicare per sei, fino a 127,9 miliardi di dollari, il valore della materia prima cacao, un’analisi di Fairtrade International riferisce che milioni di agricoltori guadagnano appena il 6% del valore finale di una barretta di cioccolato (era il 50% negli anni Settanta), un livello talmente basso da esacerbare sfruttamento, deforestazione e povertà nei Paesi produttori. Secondo uno studio dell’Università olandese di Wageningen, oltre un milione di piccoli contadini in Ghana e Costa d’Avorio guadagna rispettivamente 1,42 dollari e 1,23 dollari al giorno, in confronto ad un livello minimo di 2,08 e 2,55 dollari: servirebbero 10 miliardi di dollari in più all’anno per un reddito dignitoso. Impossibilitati ad investire e a diversificare, questi piccoli produttori hanno anche un potere negoziale pressoché inesistente e sono esposti alla volatilità dei prezzi.
Nelle scorse settimane, anche nel tentativo di contrastare il contrabbando di cacao verso i Paesi confinanti, le autorità del Ghana hanno aumentato del 63% il prezzo garantito ai produttori, portandolo per la stagione in corso all’equivalente di 1.837 dollari Usa per tonnellata, la tariffa più alta mai pagata a livello locale in oltre 50 anni e dovuta proprio al boom dei prezzi sui mercati internazionali. L’aumento, però, basterà appena a pareggiare un tasso di inflazione che, se a settembre era al +38%, a maggio di quest’anno ha toccato in Ghana anche il +62%. Servirebbe insomma molto di più, ai piccoli produttori, per uscire dalla povertà. Nemmeno l’accordo del 2019 tra Ghana e Costa d’Avorio sul cosiddetto differenziale di reddito – un premio standard di 400 dollari a tonnellata addebitato all’industria del cacao in aggiunta ai prezzi sui mercati globali, per contrastare la povertà e in ottica sostenibilità – finora è riuscito a decollare. Molte multinazionali, infatti, hanno trovato “escamotage” per non pagare l’extra. Tanto che, lo scorso anno, i due Paesi africani hanno scelto di disertare il meeting di Bruxelles sulla sostenibilità del cacao organizzato dalla World Cocoa Foundation, organizzazione di cui fanno parte 100 aziende tra i principali fornitori, produttori e rivenditori di cioccolato al mondo. Vari fattori, nel frattempo, stanno contribuendo al calo della produzione. Gli effetti del cambiamento climatico, la diffusione della malattia del baccello nero, la diminuzione del numero di coltivatori, alcuni dei quali vendono le loro terre pur di provare a sopravvivere, la minore disponibilità di fertilizzanti dovuta al conflitto in Ucraina e l’aumento dei costi di produzione sono tra le cause della minore disponibilità di cacao. La produzione della stagione 2022/23 del Ghana è stata la più bassa in 13 anni, oltre il 24% in meno della stima iniziale di 850mila tonnellate, una tendenza simile a quella dell’intera regione. Secondo diversi analisti, i prezzi pagati finora dall’industria non sono sufficienti a garantire una produzione di cacao sostenibile, che assicuri ai produttori un reddito di vita dignitoso, che non alimenti la deforestazione e non favorisca il lavoro minorile. La promessa di “sostenibilità”, segnale rassicurante delle principali aziende ai propri clienti al momento dell’acquisto di una barretta di cioccolato, nasconde spesso realtà ben più crude, sia a livello sociale che ambientale. E la situazione non è differente in altre regioni del mondo, come in Ecuador, dove la stragrande maggioranza della produzione di cacao è frutto del lavoro di piccoli produttori. Secondo l’Ong olandese Rikolto, oltre l’85% dei produttori di cacao e caffè nel Paese sudamericano hanno redditi bassi e sono vulnerabili al cambiamento climatico, oltre a fronteggiare alti tassi di interesse per i prestiti di cui necessitano. Solo il 7% dei piccoli produttori di cacao, inoltre, fa parte di cooperative o associazioni di vario tipo, trovandosi quindi a fronteggiare da solo il mercato.
A livello internazionale, il mercato del cacao è concentrato nelle mani di pochissimi grandi gruppi, che hanno un’enorme responsabilità nell’assicurare una piena tracciabilità delle loro catene di fornitura. Secondo l’ultimo Cocoa Barometer, uno studio biennale sullo sviluppo sostenibile nel settore del cacao, pubblicato da un’alleanza di Ong e unioni sindacali denominata Voice Network, persistono ancora grandi differenze: se il gruppo Cemoi arriva all’87% di tracciabilità a livello di cooperative, il gigante svizzero-belga Barry Callebaut è al 40%. Nemmeno la corsa verso volumi certificati di cacao dell’ultimo decennio ha peraltro portato a miglioramenti significativi: non è una semplice certificazione, sottolinea lo studio, a poter garantire una “patente di sostenibilità”.
Diverse aziende, peraltro, hanno scelto di lavorare dal basso, affiancando cooperative locali. È il caso della bolzanina Loacker, che in Ecuador ha sviluppato una partnership con la Fondazione Maquita, in collaborazione con Altromercato, nella provincia di Manabì. Attualmente, la quantità di cacao sostenibile proveniente dal “Sustainable Cocoa Farming Program” copre il 33% del cacao complessivo utilizzato da Loacker, che prevede di aumentare la quota fino a raggiungere il 100% entro il 2031. «La Fondazione Maquita – spiega a L’Economia Civile María Jesús Pérez Mateos, direttrice generale dell’organizzazione – ha una proposta di lavoro con le organizzazioni e le famiglie, che inizia con la formazione e il rafforzamento delle capacità dei leader, dei dirigenti e dei loro partner, affinché si favorisca lo sviluppo territoriale. Un'altra area di lavoro è l'assistenza tecnica agricola che si basa sulla cura e la nutrizione della terra, sulla diversificazione dei prodotti, sulla tecnologia, sulla buona gestione dell'acqua». Inoltre, continua la responsabile della fondazione, «attraverso i principi del commercio equo e solidale insieme ai produttori legati alla rete Maquita e con i nostri clienti nei mercati internazionali abbiamo rafforzato il rapporto commerciale con l’esportazione di semi e semilavorati di origine», i cui contratti «pagano un premio per il riconoscimento alle famiglie affiliate dell’esecuzione di buone pratiche ambientali», grazie al quale i produttori possono «aumentare il loro reddito familiare e migliorare le loro condizioni di vita».
Tra i vari programmi avviati dalle aziende del settore, è attivo da undici anni Cocoa Life, tramite il quale Mondelez International, gigante del cioccolato a livello globale che ha in portafoglio brand come Milka e Toblerone, si è impegnata ad investire ulteriori 600 milioni di dollari, per un totale di 1 miliardo dall’avvio del progetto, per migliorare la filiera e le condizioni dei coltivatori. «Attraverso Cocoa Life, Mondelez international investe nella formazione dei coltivatori, nell'adozione di buone pratiche che possono includere l'agroforestazione, la mobilitazione delle comunità per proteggere le foreste, la piantumazione di alberi e altro ancora – sottolinea a L’Economia Civile Lorenza Cipollina, responsabile Comunicazione e relazioni istituzionali di Mondelez Italy –. Condanniamo il lavoro minorile e collaboriamo con i nostri partner per contribuire ad affrontarne le cause alla radice, tra cui la povertà relativa degli agricoltori, la mancanza di infrastrutture come acqua corrente e strade e lo scarso accesso a scuole e assistenza sanitaria. Il tutto con un approccio olistico e incentrato sulla comunità».
Che ci sia ancora molto da fare nella filiera, lo dimostra però un caso giudiziario che lo scorso anno ha visto sotto accusa negli Stati Uniti sette pesi massimi dell’industria globale del cioccolato, tra cui Nestlè, Cargill e la stessa Mondelez International. Otto cittadini del Mali hanno raccontato in un tribunale di Washington di essere stati, da minorenni, vittime di traffico di esseri umani, di essere stati costretti a lavorare nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, senza peraltro ricevere nemmeno compensi, e di aver subito continue minacce. Una giudice federale ha rigettato le accuse di schiavitù minorile, respinte peraltro con forza in aula dalle aziende citate, spiegando che gli otto maliani non hanno dimostrato un «legame tracciabile» tra le aziende e le piantagioni in cui avevano lavorato e non hanno spiegato adeguatamente il ruolo degli intermediari nella catena di approvvigionamento del cacao, ma la stessa magistrata ha fatto notare che le aziende accusate non hanno monitorato l'attività nelle «zone franche» dove viene prodotto circa il 70-80% del cacao. I controlli, insomma, restano scarsi. Consentendo così, al di là delle singole responsabilità aziendali, che nella filiera del cacao sfruttamento e violazione di diritti siano ancora all’ordine del giorno.