Lasciate perdere la perseveranza cieca e ostinata, consegnate all’oblio la tenacia, abbandonate le trincee della cocciutaggine, dimettete l’eroismo testardo (e un po’ masochista). È la rinuncia la vera virtù da riscoprire, inseguire, praticare. Non ha dubbi Annie Duke, singolare studiosa americana, ex giocatrice professionista di poker votata allo studio delle scienze sociali. Attraverso un’aneddotica sterminata e lussureggiante, che spazia dall’economia allo sport, dalla storia al gioco, l’autrice illustra l’arte poco frequentata e ancor meno incoraggiata (e socialmente approvata) del “lasciar perdere”. Ma perché, per l’autrice , la rinuncia è da preferire alla perseveranza, il cambiamento all’ostinazione? Quali sono le qualità grazie alle quali la rinuncia (in alcuni casi) è più vantaggiosa della tenacia?
Al centro dell’indagine condotta da Annie Duke c’è il processo decisionale, croce e delizia delle scienze sociali. Perché agiamo in un modo, preferendolo a un altro? Perché perseveriamo, spesso contro ogni logica e, persino, contro ogni convenienza? Qual è l’intrico di idee, aspirazioni, speranze (e a volte frustrazioni) che ci spinge a imboccare una strada, trascurandone un’altra? Si tratta di qualcosa di ascrivibile al campo razionale – come tale misurabile e, in qualche modo prevedibile, come azzardano le scienze comportamentali – o, al contrario, siamo davanti a un mix che sfugge fatalmente alla razionalità? A un geroglifico difficilmente comprensibile? Duke invita a fare un passo indietro, preliminare. E a guardare in primis a quella sorta di mistero che è la decisione. Prendere una decisione è il risultato di un calcolo tra costi e benefici ma anche un azzardo, uno sporgersi oltre il perimetro della razionalità. Perché? Perché, risponde l’autrice, «il mondo è stocastico. Non operiamo in base a certezze ma a probabilità, e non abbiamo una sfera di cristallo che ci dica quale, tra tutti i possibili scenari futuri, sarà quello che si verificherà effettivamente ».
Ma non basta. Non siamo onniscienti: quando scegliamo «non disponiamo di tutte le informazioni necessarie». E ancora. Ogni decisione produce un cambiamento, mette in moto un processo che si riverbera sugli altri “attori” in campo, modificando – spesso in maniera imprevedibile – lo scenario nel quale siamo chiamati ad interagire. Risultato? La decisione iniziale, e il modo di operare che ne deriva, non è più quella consona ai risultati prefissati. Infine, c’è un altro elemento che complica il quadro. Il gusto dell’azzardo, del gioco, persino della scommessa che fa dell’“attore” un decisore imprevedibile, capriccioso e, spesso, autolesionista. C’è poi un ulteriore fattore che inceppa la nostra capacità decisionale, che annebbia il nostro giudizio e che ci “costringe” a perseverare anche quando la linea di condotta scelta appare sbagliata e incapace di garantire i risultati sperati: è il fantasma del fallimento. Il demone della sconfitta – e il giudizio che ne deriva – è così potente, ci condiziona così facilmente perché mette in gioco il senso profondo che ciascuno ha di se stesso e della propria identità. Secondo Duke, siamo davanti a un vulnus che acceca non solo il singolo individuo ma anche gli “attori” collettivi.
Emblematico, scrive la studiosa, di come «sia facile rimanere impaludati nelle cose che abbiamo iniziato», è il caso della tragica guerra del Vietnam. Nonostante fosse opinione (quasi) unanime l’impossibilità di vincere quella guerra, il decisore politico americano scelse non solo di non desistere ma di intensificare gli sforzi bellici, contro ogni senso dell’opportunità. «Quando riceviamo cattive notizie – scrive Duke –, quando riceviamo segnali consistenti di sconfitta non ci limitiamo a rifiutarci di lasciare perdere: raddoppiamo e triplichiamo gli sforzi, decidendo di profondere più tempo e denaro (nonché altre risorse) alla causa persa, puntellando la convinzione di essere sulla strada gusta ».
Si staglia qui la necessità di praticare l’arte della rinuncia: la capacità di cogliere il momento giusto nel quale abbandonare la partita. È dunque una concezione kairologica del tempo quella che soggiace all’arte della rinuncia. Una concezione del “momento opportuno” che predilige la flessibilità del lasciare perdere alla durezza del perseverare, la scelta di cambiare rotta al fanatismo dell’obiettivo immodificabile. Che implica, insomma, la capacità di osservare la realtà, di sbalzarla dalla sua staticità e coglierne il movimento, la reattività, i cambiamenti. È quella forma di intelligenza mobile e molteplice che i greci chiamavano metis: l’abilità umana che spinge – di fronte alla tessitura della realtà – non all’accettazione passiva, né all’ostinazione insensata ma, quando sia necessario, a lasciare perdere, a cambiare direzione e a rimettere in gioco la propria decisione (e dunque se stessi). È in fondo anche un esercizio di umiltà. Non sempre il mondo si piega all’urto della nostra volontà.