mercoledì 5 giugno 2024
Concepire l’egualitarismo non come fine ma come mezzo permette di affermare la dignità di ciascuno in quanto membro della comunità
Immanuel Kant

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Quando Immanuel Kant, figlio di un sellaio di Königsberg, ebbe l’opportunità di studiare e affrancarsi dalla vita dell’artigiano a lui stesso destinata, sviluppò inizialmente un certo disprezzo per gli ignoranti. Tuttavia, dopo la lettura del suo coevo Jean-Jacques Rousseau, confessa egli stesso, cambiò completamente visione e dichiarò che il suo lavoro di filosofo sarebbe stato più inutile di qualsiasi altro lavoro se non fosse servito a ripristinare i diritti dell’intera umanità. Forse non ce l’ha fatta, ma ancora oggi ci riferiamo a Kant come colui che ha rimesso l’uomo al centro del processo conoscitivo ed etico, nell’ottica della responsabilità individuale e collettiva.

Dal canto suo, Rousseau è colui che ha operato per primo il passaggio da una logica dell’utile, cioè individuale, a una del bene, cioè comune. Insomma, questi due pensatori rappresentano a buon diritto la modernità, ma oggi vacillerebbero entrambi di fronte alle disuguaglianze che caratterizzano il nostro mondo. Da qualche mese sono salite a 15 le persone sul pianeta che hanno più di 100 miliardi di patrimonio; l’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti non ha fatto crollare il sistema finanziario, ma ha messo milioni di famiglie a reddito basso e moderato a dura prova: si resta indietro con i pagamenti sulle carte di credito, l’indebitamento individuale sale più che mai e i salari sono bloccati.

L’ultimo rapporto Oxfam certifica che «la ricchezza dei 5 miliardari più ricchi al mondo è più che raddoppiata, in termini reali, dall’inizio di questo decennio, mentre la ricchezza del 60% più povero dell’umanità non ha registrato alcuna crescita». Sempre Oxfam segnala che nel mondo «gli uomini detengono una ricchezza superiore di 105.000 miliardi dollari a quella delle donne». Sono solo alcuni esempi, giusto quelli che riguardano i soldi. Poi ci sarebbero le disuguaglianze rispetto all’accesso alle cure, alle risorse naturali, al cibo, al riconoscimento della propria cultura o della lingua, disuguaglianze rispetto alla mobilità, alla casa, al lavoro e così via. È una questione di diritti, si pensa. Ed è ciò che spinse, nel 1948, la giovane Organizzazione delle Nazioni Unite a stilare la Dichiarazione universale dei diritti umani, un documento che consideriamo di capitale importanza, un faro nel percorso del progresso dell’umanità. Poco meno di cinquanta Paesi sottoscrissero quel documento, che nel tempo ha acquisito importanza, ispirando le leggi di molti Stati, e allo stesso tempo ha messo in luce le differenze di un mondo che pare utopistico (e forse errato) voler unificare sotto principi comuni.

Già nel 1948 i Paesi arabi che firmarono la Dichiarazione si contavano sulle dita di una mano e negli anni Ottanta fu stilata una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo. Ma anche la Cina, che a suo tempo votò a favore, si premurò di sottolineare la sua diversa prospettiva culturale in termini di etica e di concezione della società. E l’Africa? Quasi inesistente: i Paesi subsahariani hanno addirittura un’idea completamente opposta dell’individuo – il quale si crea, si sviluppa e si dissolve nelle relazioni sociali – esplicitata nel concetto di ubuntu. Molti filosofi hanno riflettuto sulla Dichiarazione e hanno concluso che quei diritti fossero più occidentali che universali, perché sono legati all’idea di un’uguaglianza che porta con sé l’idea di giustizia (dall’Illuminismo al Novecento), fondando tutto sull’individuo come metro di misura per l’uguaglianza (da Protagora all’Umanesimo). Se tuttavia spostassimo il focus sulle relazioni fra individui e fra individui e ambiente, e quindi anche sulle diverse culture che queste relazioni disegnano, forse saremmo in grado di relativizzare, senza negarli, quei diritti: significa andare oltre l’uomo e concepire l’essenza di un diritto realmente adatto tutti.

Un oltre- uomo inteso come un livello più ampio di umanità, che includa l’interrelazione delle cose nel loro dispiegarsi in contesti del tutto diversi e imparagonabili. Senza arrivare all’estremizzazione, pur convincente a dire il vero, di Gilles Deleuze, per cui, «quando si invoca la giustizia, si invoca qualcosa che non esiste, quando si invocano i diritti dell’uomo, si invoca qualcosa che non esiste», perché ciò che esiste sono solo le situazioni contingenti, cioè la vita stessa nel suo farsi, ecco, senza arrivare a ciò, occorre però riflettere sulla natura rigida di ogni universalizzazione dei diritti e provare a inoltrarsi nella varietà di pensieri, culture, situazioni, ambienti in cui i diversi diritti dovrebbero potersi esprimere. Allora forse potremmo spostare l’attenzione dall’egualitarismo come fine e concentrarci sulla sua natura di mezzo, per riconoscere e affermare la dignità di ciascuno in quanto membro inscindibile dalla comunità, che è un fatto contingente, locale, culturale e non universale. In questo modo torneremmo all’individuo con maggiore consapevolezza e rispetto. È un’ipotesi, ma che vale la pena considerare, anche solo per scartarla: in fondo la filosofia ha lo scopo di ridiscutere continuamente le nostre certezze, a volte per rafforzarle.

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