venerdì 13 gennaio 2023
«Lavoro decente, teoria neoumanista e il tema della pace sono tra i campi d’interesse su cui puntare» Oggi a Loppiano un evento celebrativo per gli 80 anni dell’economista italiano Stefano Zamagni
Stefano Zamagni

Stefano Zamagni - Siciliani

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«La diffusione sempre più capillare del paradigma dell’economia civile sarà un fenomeno naturale ed avverrà soprattutto grazie alla spinta della gente. Del resto, il processo è già in atto, la situazione è diventata ormai insostenibile e il fallimento dei “vecchi” modelli dominanti in passato è sotto gli occhi di tutti». Stefano Zamagni – docente ordinario all’Università di Bologna, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e tra i “padri” dell’economia civile – è convinto che la “sua creatura” sia pronta a imporsi sempre di più nel prossimo futuro come nuovo modello di sviluppo sostenibile e inclusivo. Oggi, in occasione degli 80 anni del professor Zamagni compiuti lo scorso 4 gennaio, alla Scuola di economia civile di Loppiano si terrà un evento celebrativo per ricordare i passi percorsi dal 1997 a oggi, quando riordinando i libri della biblioteca universitaria che erano nel suo ufficio capitò fra le mani di Zamagni una vecchia edizione delle “Lezioni di Economia Civile” di Antonio Genovesi. In quel momento si accese una lampadina e iniziò un percorso di studi e ricerche che ha contribuito alla diffusione del paradigma dell’economia civile a livello nazionale e internazionale: «Da allora ad oggi ne è stata percorsa di strada – afferma Zamagni –. Adesso parlare di economia civile non è più oggetto di vergogna. Anzi, come dimostra anche il movimento “Economy of Francesco” ormai la trasformazione è in corso e non si può fermare».

Professore, come si spiega l’accelerazione di questa rivoluzione?
Perché il paradigma dell’economia politica, che si contrappone a quello dell’economia civile, si è rivelato incapace di mantenere le sue promesse. Sono tre, in particolare, le promesse non mantenute. La prima è stata il fallimento della teoria del trickle-down effect, ovvero dell’effetto “sgocciolamento”, che sostiene come dando benefici ai più ricchi automaticamente ne avrebbero tratto vantaggio anche i più poveri. Invece è avvenuto l’esatto opposto: negli ultimi 40 anni abbiamo assistito a un aumento del reddito globale e, contemporaneamente, a una crescita endemica delle diseguaglianze sociali. La seconda promessa non mantenuta riguarda l’ambiente, perché l’economia politica, avendo confuso il concetto di crescita con quello di sviluppo, è stata una delle concause del degrado ambientale con cui oggi siamo costretti a fare i conti. Infine, la terza promessa non rispettata è “il paradosso della felicità”. Nel 1974 Richard Easterlin ha constatato empiricamente che oltre una certa soglia di reddito pro-capite, ulteriori aumenti dello stesso anziché accrescere o stabilizzare il livello della felicità individuale ne provocano una diminuzione. Il denaro, dunque, contribuisce molto meno alla felicità di quanto è stato fatto credere dal mainstream economico per decenni, perché sull’onda del pensiero utilitarista ha confuso la felicità con l’utilità.

Tra gli obiettivi principali dell’economia civile c’è la ricerca del bene comune. Perché anche in questo campo, il vecchio paradigma non ha ottenuto risultati?
Perché il fine ultimo dell’economia politica era quello di massimizzare il bene totale. Mentre il bene totale può essere metaforicamente reso con l’immagine di una sommatoria, i cui addendi rappresentano i beni individuali (o dei gruppi sociali di cui è formata la società), il bene comune è piuttosto assimilabile ad una moltiplicazione, i cui fattori rappresentano i beni dei singoli individui (o gruppi). Nel caso della sommatoria se anche alcuni degli addendi si annullano, la somma totale resta comunque positiva. In un prodotto, invece, l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero prodotto. Un miliardo di euro moltiplicato per zero dà zero, mentre un miliardo di euro sommato a zero dà sempre un miliardo di euro. La logica del bene comune, insomma, non ammette la sostituibilità o il sacrificio del bene di qualcuno per migliorare il bene qualcun altro. Il concetto cruciale è che tutti devono partecipare allo sviluppo, in proporzioni diverse ovviamente ma senza esclusioni. Occorre tener presente, inoltre, che con il progresso dell’intelligenza artificiale e della quarta rivoluzione industriale la quota dei “poco o meno produttivi” è destinata ad aumentare. Si può allora pensare di tenerli sganciati dal treno dello sviluppo, assegnando loro provvidenze di tipo assistenzialistico?

Che cosa manca ancora per una diffusione più ampia del paradigma economico dell’economia civile?
Va detto che ci sono segnali incoraggianti: alla Sec (Scuola di economia civile) continuano ad aumentare le richieste di partecipazione ai corsi e ai dibattiti organizzati per formare “economisti civili”. Il processo è partito anche nel resto del mondo: dall’Europa agli Stati Uniti. Ad Harvard, per esempio, è nato già da diversi anni un centro di ricerca, lo Human Flourishing Program, che studia questioni legate alla fioritura umana seguendo metodi e logiche molti simili a quelle dell’economia civile. In Italia, un passaggio doveroso da compiere, per esempio, sarebbe quello di introdurre in modo diffuso nel sistema universitario corsi di economia civile. Non possono bastare alcuni casi isolati, come quello del sottoscritto a Bologna o quello di Luigino Bruni all’Università Lumsa di Roma. Poi saranno gli studenti a decidere quale piano di studi e offerta formativa preferiscono seguire, ma bisogna dar loro la possibilità di scegliere. Il che è a dir poco sorprendente, considerato che il paradigma dell’economia civile nasce in Italia (Napoli e Milano) a far tempo dal 1753.

Secondo lei, alla luce delle sfide del nostro tempo, quali saranno i principali campi d’interesse dell’economia civile nel prossimo futuro?
Nel medio-breve termine ci saranno sviluppi in vari campi. Ne cito alcuni. Sicuramente c’è da lavorare per un mutamento della concezione del lavoro. Va messo al centro il tema del “lavoro decente”, ovvero quello che non umilia e rispetta la dignità della persona. Non basta parlare di lavoro “giusto”. Un secondo punto è quello di fornire una risposta solida e argomentata alla posizione trans-umanista, finanziata dai colossi dell’hi-tech, che si propone non tanto il potenziamento quanto il superamento di ciò che è umano nell’uomo. Il progetto da contrapporre con forza a questa tesi è quello “neo-umanista”, sostenuto anche dalla Chiesa e la cui culla è proprio l’Europa. Ecco perché l’Unione Europea dovrebbe dedicare ad esso più attenzione e risorse. Infine, l’economia civile non può ignorare il tema della pace. Non mi riferisco solo alla guerra russo- ucraina, ma agli oltre 150 conflitti in corso o comunque irrisolti che ci sono in tutto il mondo. Se si vuole davvero garantire la pace è necessario costruire istituzioni di pace, e tra queste le istituzioni di natura economico-finanziaria sono quelle che meritano priorità assoluta. Tra due mesi, la Pontificia Accademia delle Scienze sociali organizzerà in Vaticano un convegno proprio per discutere di questi argomenti dal titolo “Colonialismo, neo colonialismo, pace”. Sarà questa un’occasione preziosa per rilanciare il multilateralismo e per suggerire linee di intervento volte a trasformare il modo di operare di tanti organismi internazionali.

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