Raghuram Rajan - Archivio Avvenire
Gli economisti limitano troppo spesso il loro campo di riflessione al rapporto fra Stato e mercati, ignorando il "Terzo pilastro" delle comunità locali – un atteggiamento non solo miope ma anche pericoloso secondo Raghuram Rajan, già economista capo del Fondo monetario internazionale, docente all’Università di Chicago e autore di "The Third Pillar".
Professor Rajan, quali decisioni è meglio lasciare alle comunità locali?
Qualsiasi decisione che non ha bisogno di essere centralizzata. Un esempio è l’istruzione, dove la comunità può avere un ruolo importante nel definire i programmi scolastici. Anche le normative di sicurezza aziendali rientrano fra la responsabilità locali. Molte città inoltre hanno orari di apertura diversi per uffici e negozi. I salari minimi possono essere locali, con una base stabilita a livello nazionale. Persino per le grandi questioni globali come i cambiamenti climatici, che non possono essere risolte a livello locale, le opinioni della comunità devono essere prese in considerazione. Il consenso deve essere costruito dal basso. Non dovrebbero però mai esserci tariffe locali per le merci che vengono dall’esterno della comunità o regole troppo rigide che impediscono l’ingresso di nuovi membri.
Le grandi aziende possono aver un ruolo nel sostegno delle comunità?
Le normative antitrust non sono state efficaci, quindi ora abbiamo delle mega-aziende che non prestano attenzione alle piccole comunità. Devono decentrare le loro responsabilità sociali, per interagire con la comunità. Troppi Paesi inoltre impongono requisiti pesanti per riconosce i titoli di studio, impedendo la libertà di movimento, che permetterebbe alle comunità di attirare le persone di talento di cui hanno bisogno.
Cos’altro possono fare i governi?
Decentrare. Nel Regno Unito, alcune comunità hanno ricominciato a votare conservatore nella speranza di avere più potere. La Brexit è stata un grido per riprendersi il potere da Bruxelles e in parte da Londra. Per evitare questi estremi, i governi devono fornire infrastrutture e finanziamenti alle comunità più in difficoltà, con controlli post facto, per verificare come i soldi sono stati spesi. Qualunque infrastruttura costruita a livello nazionale dovrebbe concentrarsi sul collegamento delle comunità con il centro. Con internet a banda larga per esempio.
Il rilancio delle comunità viene però anche dall’interno e richiede un forte impegno civico. Esiste ancora?
È forte nelle comunità più ricche e in quelle povere in cui la solidarietà è consolidata. Le chiese hanno sempre rivestito un ruolo enorme nella costruzione della solidarietà e il calo nel numero dei fedeli l’ha indebolita. È importante rafforzare le organizzazioni storiche, ma anche trovare nuovi modi di riunirsi. Una delle malattie più difficili dell’età moderna è la solitudine: il 27% degli anziani negli Stati Uniti vive da solo e non ha un posto dove riunirsi. Ciò peggiorerà a causa del tasso di matrimonio più basso e del tasso di divorzi più elevato e della denatalità. La comunità deve offrire un antidoto.
Le comunità hanno il diritto di respingere i membri che non condividono i loro valori?
Avere regole comuni da imporre ai nuovi arrivati è importante per creare un senso di appartenenza, ma senza balcanizzare la comunità. Ci sono rischi che possono essere contenuti con regole comuni a tutte le comunità. Negli Stati Uniti esiste ad esempio una clausola che impedisce agli Stati di bloccare l’ingresso di merci provenienti da altri Stati. Ma se una comunità esagera imponendo troppe regole, si troverà isolata e imparerà dai suoi errori.
Esiste una relazione tra il collasso delle comunità locali e l’ascesa del populismo?
Sì, in diversi modi. Alcune comunità sono state colpite dalla globalizzazione e il colpo è stato sia economico che sociale. Milioni di persone sono scivolate dalla classe media si sentono estremamente insicure. Se qualcuno dice loro: "Non è colpa tua, è l’immigrato, o sono i neri, o è la concorrenza sleale cinese", è rassicurante e offre una soluzione semplice: basta tenere fuori gli immigrati o il commercio estero o reprimere le minoranze. Ma non è vero. Il vero nemico è l’automazione, che non è arrestabile. Rendere di nuovo grande l’America, il motto di Donald Trump, voleva veramente dire renderla di nuovo bianca. Ma è un messaggio pericoloso. Le persone di pelle bianca hanno storie, culture diverse. Per tenerle insieme bisogna dare loro un nemico comune.
Pensa che l’individualismo americano si sia spinto troppo lontano, indebolendo le comunità?
L’individualismo estremo che vediamo oggi negli Usa non è culturale, è stato creato dal mercato. Storicamente andavi dal vicino perché il negozio o l’ospedale erano troppo lontani. Ora ordini online beni e servizi, come lavare la macchina, tagliare l’erba, spalare la neve, persino amici virtuali. Dobbiamo trovare un antidoto. Negli Stati Uniti le relazioni di lavoro sono importanti, ma si perdono con il lavoro a distanza.