Ancora un Ecofin all’ombra di uno scandalo sui trucchi fiscali di multinazionali e miliardari – Paradise Papers – e ancora una volta dai ministri delle Finanze arriva il coro unanime per la lotta contro l’elusione fiscale. «Spero – ha detto ieri il vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis, al termine della riunione dell’Ecofin – che i Paradise Papers ci aiuteranno a trovare nuovo slancio». Certo, il clima è cambiato, l’Ue ha fatto forti progressi a cominciare dallo scambio di informazioni, c’è un «combinato disposto di un clima internazionale in cui non c’è più la possibilità di non trasmettere informazioni», commentava ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Eppure la sensazione resta quella di un’Europa ancora in ritardo e spesso divisa. In effetti restano reticenza soprattutto da parte di alcuni Stati con un fisco fortemente conciliante (come il Lussemburgo, l’Olanda, l’Irlanda) o con territori offshore (Olanda, Regno Unito). E nell’Ue sulla fiscalità rimane l’obbligo dell’unanimità. Ieri, ad esempio, non è stato possibile approvare la proposta della Commissione Europea sull’Iva sul commercio online. Una proposta che prevede che l’imposta sia pagata nel paese del consumatore, un modo per combattere l’elusione della tassa che fa perdere 150 miliardi di euro l’anno all’Ue. E che, per semplificare la vita agli operatori, prevede uno sportello unico («Onestop shop») per la registrazione Iva. A chiedere «più tempo» è stata la Germania, per ragioni tecniche. A quel punto si è accodato il Lussemburgo.
A dicembre dovrebbe andare in porto. La grande partita del momento è però la 'Lista nera' dei paradisi fiscali. La presidenza estone dell’Ue promette un accordo finale entro fine anno. «Stiamo pensando – ha dichiarato ieri il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire – alla possibilità di tagliare il sostegno finanziario delle istituzioni internazionali come il Fmi o la Banca Mondiale a stati che non forniscono la necessaria informazione sulle imposte». Tra novembre 2016 e febbraio 2017 si è già arrivati a un accordo sul fronte dei criteri per evitare di essere inclusi (l’obbligo di soddisfare gli standard internazionali di trasparenza, avere una «equa tassazione», attuare il piano globale dell’Ocse contro l’elusione fiscale), ma Regno Unito, Irlanda e le repubbliche baltiche hanno imposto che fosse escluso dai criteri per includere un paese nella lista nera il fatto di avere una «tassa societaria nominale pari a zero o quasi zero».
La Commissione, secondo il Financial Times ha già scritto a 41 stati sovrani e 12 territori non sovrani avvertendo che saranno inclusi nella lista se non modificheranno le proprie regole fiscali. Londra ha però impedito di includere 12 giurisdizioni tra cui le Bermuda, l’Isola di Man e le isole Cayman. Questo mentre, scrive Le Monde, la Commissione si accinge a lanciare un’inchiesta sulle pratiche fiscali proprio dell’Isola di Man (britannica) e di Malta. La lista, ha avvertito inoltre Dombrovksis, «sarà inutile se non saranno anche approntate debite contromisure». Su altri fronti si registra uno stallo, anzitutto sulla cooperazione rafforzata di dieci paesi sulla tassa sulle transazioni finanziarie (la «Tobin Tax»), dopo lo stop arrivato dalla Francia a maggio. L’Ue è spaccata inoltre sulla cosiddetta «Web Tax», l’imposta per i colossi di Internet chiesta da Italia, Germania, Francia e Spagna, con Irlanda, Lussemburgo, Danimarca, Regno Unito tra i principali oppositori (al Consiglio Europeo di ottobre hanno chiesto che prima ci sia un accordo tra tutti i 35 stati membri Ocse).
Persino il Parlamento Europeo, più deciso nel chiedere una lotta all’elusione fiscale, ha partecipato a un altro annacquamento, sulla direttiva che obbliga le grandi multinazionali (con un fatturato di almeno 750 milioni di euro l’anno) a indicare dove si trovino le rispettive filiali: a luglio ha approvato un’«eccezione» là dove sia provato un danno concreto dal rivelare questi dati. Lotta all’elusione fiscale, sì. Ma piano. E senza esagerare.