L'accordo Rcep - L'ego
Con la firma il 15 novembre da parte di 15 Paesi ( i 10 dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, Asean, più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda), è diventato realtà il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), che vale circa un terzo del Pil mondiale (Usa esclusi) e coinvolge tre miliardi di individui. Voluta e indirizzata dalla Cina, è l’unica iniziativa multilaterale ad avere visto la luce durante l’era Trump oltre al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), avviato nel 2018 e che ha pure una leadership asiatica, quella del Giappone, anche se degli 11 Paesi-membri quattro si affacciano sulla costa sudamericana del Pacifico e ne fanno pure parte Australia, Nuov Zelanda e membri dell’Asean.
Entrambi i partenariati hanno risentito del naufragio del Trans-Pacific Partnership (Tpp) che, voluto da Barack Obama, era stato affossato da Trump al vertice Apec di Danang (Vietnam) nel 2017. Il Tpp aveva raccolto 12 adesioni (Cina esclusa) per dare vita a un’area di libero scambio mai vista prima, a includere il 40% del Pil mondiale connettendo le due sponde del Pacifico.
Non a caso domenica il primo ministro cinese Li Keqiang ha parlato di «traguardo epocale nella cooperazione nell’Asia orientale», ma anche di una contemporanea «vittoria del multilateralismo e del libero scambio».
Meno diplomaticamente il Global Times, media di punta del Partito comunista cinese, che ha segnalato come dell’accordo facciano parte anche «alleati degli Usa, che hanno assestato un colpo al protezionismo e al bullismo economico perseguito dagli Stati Uniti e da altri». Facile vedere come nel contesto di una contesa aspra tra Pechino e Washington, le pretese cinesi non siano prive di fondamento, ma non potranno non risentire di interessi nazionali e delle alleanze strategiche.
Rifiutando esattamente un anno fa di accedere al Rcep, l’India aveva chiaramente espresso le sue ragioni: mancanza di chiarezza su procedure e obiettivi davanti ai limiti che l’accordo avrebbe imposto alla salvaguardia dei propri interessi. Nel suo rifiuto, New Delhi aveva in buona sostanza evidenziato i dubbi di molti sulle basi dell’accordo, denunciandone la nebulosità oltre i numeri e i principi. Una reazione d’orgoglio, anche, da parte di uno dei principali mercati e la terza economia mondiale a parità di potere d’acquisto, ma in un certo senso un avvio del confronto ormai dichiarato tra i due colossi demografici dell’Asia, dalla scorsa primavera diventato anche armato nelle aree confinarie contese lungo la catena himalayana.
Negli ultimi mesi, il vento è cambiato nei confronti di Pechino, complice anche il suo ruolo nella pandemia, e la concretizzazione del Partenariato sembra oggi la costruzione di un blocco «in contrasto o opposizione» con i critici di Pechino piuttosto che di aggregazione regionale su interessi condivisi. Indubbiamente, il ruolo cinese è oggi forte a tal punto da coordinare una iniziativa come il Partenariato che mette in secondo piano antiche aggregazioni regionali, a partire dall’Asean. Inevitabilmente, una parte dell’Asia è stata chiamata a una scelta di fronte proprio mentre si intensificava quella che Pechino definisce «ingerenza di potenze straniere».
L’Europa, più di altre aree del Pianeta, dovrà attentamente calibrare costi e benefici di una opposizione alle mire cinesi davanti a un interscambio economico del valore di 559 miliardi lo scorso anno, di cui 198 di esportazioni Ue verso la Cina e 361 miliardi di flusso contrario.