Il vilaggio di Gorey sull'isola di Jersey, uno dei paradisi fiscali europei (foto 2017 Wolfgang Pehlemann, Wikicommons)
Negli uffici parigini dell’Ocse si sta lavorando, senza eccessiva pubblicità, alla rivoluzione del fisco mondiale. Nel marzo del 2017 i ministri finanziari del G20 hanno incaricato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di elaborare le regole per adeguare i sistemi fiscali alla realtà dell’economia digitale. L’obiettivo è contrastare le sofisticate strategie di elusione fiscale delle multinazionali, che secondo il Beps (l’organo dell’Ocse che lavora su questi temi) permettono alle aziende risparmi da circa 240 miliardi di dollari all’anno.
L’Ocse ha presentato le sue proposte per definire i due pilastri su cui potrebbe poggiare il sistema fiscale dei prossimi decenni. La prima proposta, pubblicata lo scorso ottobre, è quella di superare la regola per cui i governi hanno il diritto di tassare solo le aziende che hanno una presenza fisica sul loro territorio. Andare oltre significherebbe permettere a uno Stato di tassare un’azienda straniera in base all’attività che svolge sul suo territorio. È il caso tipico, per esempio, della pubblicità di aziende italiane diretta a clienti italiani ma pagata alla filiale Google Ireland e quindi tassata dal fisco irlandese.
La seconda proposta, pubblicata venerdì scorso, apre all’idea di indicare un livello minimo globale di tassazione complessiva sui profitti di un’azienda: se una multinazionale sfruttando i paradisi fiscali o nazioni particolarmente “generose” dal punto di vista fiscale riesce a pagare tasse sotto una certa soglia (ancora da definire, ma indicata al 15% negli esempi proposti dall’Ocse), allora il governo del Paese in cui quell’azienda ha il suo quartier generale potrebbe obbligarla a versare più tasse in patria. Entrambe le proposte modificano alla base la tradizione del fisco internazionale, che impedisce ai governi di tassare i profitti ottenuti dalle loro aziende all’estero o quelli ottenuti nei loro Paesi da aziende straniere. La materia è estremamente complessa. Il Beps ha pubblicato le due proposte, definite Pilastro I e Pilastro II, e ha aperto una consultazione pubblica tra i soggetti interessati. L’obiettivo è arrivare a definire una soluzione condivisa a livello di G20 già entro la fine del 2020, anno in cui l’Ocse intende pubblicare il suo rapporto finale sulla necessità di una riforma della tassazione internazionale. Del Beps fanno parte 130 Paesi, cioè quasi tutte le nazioni del mondo. Arrivare a un accordo politico su questa rivoluzione fiscale è difficile. Paesi come l’Irlanda, la cui tassa sui redditi d’impresa è al 12,5% (la media europea è al 21,3%), mentre altri, come l’Italia, potrebbero ottenere un significativo aumento delle entrate fiscali. Facilita però l’intesa il fatto che tutti i governi riconoscano che occorre trovare una soluzione. In assenza di norme internazionali condivise, diversi Stati stanno procedendo con soluzioni unilaterali, come le web tax di Francia e Italia o la legge con cui gli Stati Uniti hanno ottenuto il rimpatrio delle casse miliardarie di alcune delle sue multinazionali (la sola Apple ha riportato negli Stati Uniti dall’isola di Jersey 285 miliardi di dollari, pagando 28 miliardi di tasse al governo americano). È proprio per evitare queste mosse unilaterali che il G20 ha affidato all’Ocse l’incarico di trovare una soluzione. Il tempo a disposizione è molto ma non moltissimo: il prossimo vertice del G20 sarà a Riad, in Arabia Saudita, il 21 e 22 novembre del 2020.