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Diciamoci la verità. Nel Paese delle opere incompiute fa strano che qualcuno riesca a spendere un miliardo e 300 milioni in sei anni, rifare un porto e ammodernarne altri cinque, che ora potranno movimentare le grandi navi mercantili e da crociera. Ma soprattutto farlo in Sicilia, senza essere fermato. A Genova, per una concessione, è saltata in aria la Regione.
«In Sicilia si possono fare le cose» ha esclamato ieri mattina il governatore Renato Schifani, riconoscendo l’importanza dell’operazione gestita dal presidente dell’Authority portuale Pasqualino Monti. Un manager pubblico (è anche ad di Enav) cresciuto sulle banchine – ha già rilanciato Civitavecchia – e che in primavera lascerà l’incarico, anche se il governatore ha detto che lo confermerebbe «in eterno». La riqualificazione avvenuta nell’area portuale è ormai un modello, anche se, come ha commentato il sindaco Roberto Lagalla, la città attende il completamento delle ultime opere di interfaccia (35 milioni). Sulla necessità delle connessioni porto-città ha insistito, alla sesta edizione di “Noi, il Mediterraneo”, l’architetto Alfonso Femia: «Diventa importante capire come la riqualificazione riesca a connettersi con il centro urbano. I porti possono essere la chiave per collegare tutti gli spazi e le funzioni, come sta avvenendo in diverse città costiere». Al suo fianco, a discutere su come collegare banchine e piazze, c’erano Eduard Rodès, direttore del porto di Barcellona, e Maurizio Carta, assessore all’urbanistica di Palermo. «La Sicilia non è una terra casuale», ha commentato Bruno Dardani del centro Giuseppe Bono, pensatoio dello shipment, mentre Lagalla rassicurava tutti che se riesce una reale collaborazione tra l’amministrazione pubblica e gli operatori economici, le opere si riescono a portare a termine: 650 milioni cubano quelle terminate nel capoluogo.
Si può dire che i numeri di Palermo individuano una visione e di un metodo. La prima, già esplorata da Genova e Barcellona, ma soprattutto da New York, San Francisco e San Diego, porta ad abbattere le mura del porto e restituire alla città le aree a mare, prima in degrado. Sul piano economico e amministrativo, giunti al termine dell’era Monti, Palermo diventa un modello per chi, ad esempio, dovrà fare la manutenzione di un bacino di carenaggio: l’infrastruttura consente lo sviluppo dello stabilimento Fincantieri e questo significa commesse e posti di lavoro, eppure, per far partire quei lavori, è stato comunque necessario superare uno slalom tra 23 autorizzazioni, una valutazione d’impatto ambientale e la melina di alcune amministrazioni. Non meno complicato l’iter che ha portato alla realizzazione del nuovo molo trapezoidale e ai dragaggi (che hanno assorbito 32 milioni), qui come negli altri porti del sistema della Sicilia occidentale. Perché l’Italia resta quella di sempre e anche per piantare un dolphin, il palo di ormeggio, devi farti autorizzare dal Consiglio Superiore dei lavori pubblici.
In assenza di uno snellimento del sistema dei permessi che tutti preconizzano e nessuno attua, il successo del modello Palermo si può spiegare solo con la determinazione dell’Autorità portuale, la cui esperienza potrebbe tornare utile alla riforma della portualità, ammesso che Lega e Fratelli d’Italia smettano di litigare sulle nomine dei nuovi presidenti. L’unica certezza, al momento, è che Palermo resta l’eccezione. La zavorra burocratica continua a essere pesantissima e deliberare un dragaggio è ancora visto come un attentato ambientale; eppure aver completato quello di Trapani consentirà di triplicare gli arrivi, così come i lavori al bacino di carenaggio daranno lavoro a migliaia di persone e, a regime, permetteranno la costruzione, l’allungamento e il rimessaggio delle navi. Con cinquemila addetti (a regime), quella cantieristica sarà la più grande industria della città.
Tirando le somme sugli investimenti di questi anni, l’Autorità ieri ha spiegato che hanno interessato una superficie di oltre 50mila metri quadrati, su cui sono stati demoliti circa 30mila metri cubi di strutture fatiscenti e abusive, due gru e 29 silos; è stata riqualificata la banchina Sammuzzo, che serve le grandi navi da crociera e i collegamenti con le isole minori; sono nati tre ristoranti a bordo d’acqua, una scenografica fontana, attracchi per 14 mega yacht, un convention center, un teatro, un museo multimediale. Tutto ciò, inglobando il Castello a Mare, presidio archeologico. Insomma, a Palermo è nato un nuovo quartiere che ogni anno sarà attraversato da oltre due milioni di persone, di cui la stazione marittima è il cuore. Può ospitare - contemporaneamente - due navi e 12 mila passeggeri.
Monti, ieri, ha assicurato che lascerà opere in grado di mantenersi. Quanto alla riforma dei porti, sostiene l’ipotesi di una autorità nazionale, che come l’Enav dovrebbe essere un’azienda quotata e pubblica. Ieri ha auspicato che si arrivi a una programmazione nazionale dell’attività portuale e degli investimenti, che oggi può contare su ricavi annui per 2,7 milioni di euro. In questi anni, il suo “modello” ha portato gli scali della Sicilia occidentale ad aumentare il proprio Pil di sette volte.
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