Il nuovo rapporto Oxfam offre un quadro impietoso sulle diseguaglianze e sulle contraddizioni di un sistema abilissimo nel generare valore economico ma disastroso nella sua capacità di distribuirlo equamente. Il comunicato stampa del rapporto evidenzia che «dal 2020, i 5 uomini più ricchi al mondo hanno raddoppiato le proprie fortune (+114%), mentre i 5 miliardi di persone più povere del pianeta hanno visto complessivamente invariata la propria condizione». E sottolinea come «ai ritmi attuali, ci vorranno oltre 2 secoli (230 anni) per porre fine alla povertà, ma nel giro di un decennio potremmo avere il primo trilionario» (con un patrimonio superiore a mille miliardi di dollari) della storia dell’umanità.
Si dice che «i poveri non possono aspettare». Invece continuando così saranno costretti a farlo e nell’attesa vedranno passare nuovi miliardari e forse trilionari.
I limiti del sistema dovrebbero scandalizzare anche il pensiero liberale perché della mano invisibile che trasforma la somma degli appetiti individuali al profitto in benessere per tutti attraverso la concorrenza, riducendo progressivamente i profitti stessi, sembra non esserci traccia. La ragione è semplice, l’economia di mercato e la concorrenza non coincidono con il laissez faire. Il mercato senza regole porta naturalmente alla creazione di monopoli ed oligopoli se non funzionano istituzioni come l’antitrust e se la forza delle istituzioni nazionali è indebolita dall’opzione di delocalizzazione delle imprese. Questo problema di fondo è esasperato nel digitale dove si creano economie di rete che conferiscono implicitamente poteri enormi alle società che gestiscono le piattaforme. Siamo soliti raccontare ai nostri studenti che i mercati sono luoghi impersonali dove s’incontrano miriadi di produttori e consumatori ma oggi in alcuni casi un singolo produttore, o quasi, è (possiede) il mercato (sia esso la piattaforma delle vendite online, delle consegne a domicilio o di servizi di trasporto urbano) che cessa pertanto di essere luogo imparziale di composizione di interessi.
Dal titolo di un lavoro pubblicato da Adam Bonica e altri colleghi sul Journal of Economic Perspectives sorge la domanda che tutti dovremmo farci: Perché la crescita delle diseguaglianze non è rallentata o non si è arrestata con la democrazia?. In un sistema democratico infatti piattaforme politiche che propongono interventi di fiscalità progressiva (interventi ex post) o agevolano accesso a sanità ed istruzione (interventi ex ante) che migliorano le condizioni del 99% dei cittadini aumentando il prelievo fiscale dell’1% più ricco dovrebbero vincere a mani basse le elezioni. La realtà è differente come illustra un recente lavoro di Santoro, Roventini, Guzzardi e Palagi che sottolinea come l’imposizione fiscale in Italia sia addirittura regressiva sui redditi più elevati se considerata complessivamente includendo la fiscalità su patrimoni e rendite finanziarie.
La spiegazione della letteratura è che esiste una tale disparità nelle risorse economiche che sostengono le campagne dei candidati che l’agenda dell’1% alla fine prevale sempre. Le diseguaglianze così tendono ad aumentare con costi sociali non sempre interamente visibili.
In alcuni lavori recenti di ricerca dimostriamo come esse minano in Italia e in Europa la fiducia nelle istituzioni e la coesione sociale alimentando la propensione al complottismo (esplosa durante la pandemia sulla questione dei vaccini) e riducendo (per la crescente sfiducia che il sistema possa cambiare) la propensione al voto. Quest’ultimo fenomeno può mettere in moto un circolo vizioso che porta alla fine alla morte naturale della democrazia.
La questione della diseguaglianza – alimentata dalla combinazione di globalizzazione e progresso tecnologico che crea una società duale fatta di altamente qualificati e/o di garantiti che hanno sempre maggiori opportunità e di scarsamente qualificati risucchiati in una corsa al ribasso nella manodopera globale a basso costo – è chiara ma le soluzioni non sono così semplici.
L’aumento della progressività fiscale in un solo Paese rischia infatti di essere solo parzialmente efficace in una corsa al ribasso dove le aziende globali stabiliscono la loro sede in paradisi fiscali per pagare meno. Questi ultimi purtroppo non sono solo in isole lontane ma all’interno stesso dell’Unione Europea e contribuiscono ad aggravare i divari di sostenibilità del debito dove spesso i paesi che si definiscono virtuosamente frugali beneficiano in realtà di tali meccanismi.
Un primo parziale segnale di riscossa all’orizzonte è quello della nascita della Global Minimum Tax che costringe le imprese di grandi dimensioni a pagare il 15 percento di aliquota effettiva ponendo un primo limite importante alla concorrenza fiscale sleale. Lo stesso approccio potrebbe in futuro dare seguito ad una tassa minima globale sui grandissimi patrimoni (nella proposta di Oxfam con un’aliquota a tre scaglioni tra 1 e 3 percento per quelli sopra i 5,4 milioni netti che colpirebbe lo 0,01 percento più ricco con un gettito stimato tra i 13 e i 15 miliardi di euro solo in Italia). I pazienti ammassati su barelle al pronto soccorso degli ospedali italiani e i cittadini che devono attendere oltre un anno per una visita di controllo gradirebbero.