giovedì 2 dicembre 2021
Passata l’epoca del collettivismo e superata quella dell’individualismo si apre un nuovo ciclo nella storia del rapporto tra persone e comunità E può essere una grande occasione
La pandemia ha fatto crescere la richiesta di aiuti alimentari da parte delle famiglie povere

La pandemia ha fatto crescere la richiesta di aiuti alimentari da parte delle famiglie povere - Fotogramma

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Caro direttore, l’apatia sociale ha radici profonde. Da tempo su libri e giornali lo stato di salute del tessuto sociale viene descritto con concetti convergenti: declina la credibilità delle istituzioni (non solo di quelle politiche), l’indebolimento del sentire comune si traduce in una polarizzazione permanente dell’opinione pubblica, la volatilità domina i comportamenti sociali, tra élite e popolo c’è una divaricazione. Da tutti questi sintomi qualcuno fa derivare un allarme sul futuro della democrazia. Ma anche chi ritiene fisiologico un calo della partecipazione alla vita pubblica in una società più matura non può non interrogarsi sul senso di questa stagione in cui le passioni civili hanno vita tanto breve, precaria e conflittuale. Abbiamo ancora memoria di altre fasi della vita del Paese in cui il clima era diverso. Bisogna risalire però indietro nel tempo, a quando la società viveva nella fase delle identità collettive, un periodo in cui era forte il bisogno di identificarsi in un gruppo, una classe, una qualche corporazione, per trovare il proprio posto nel mondo. Protagoniste erano le grandi organizzazioni di massa, perno indiscusso della vita politica, sociale, religiosa. Con la funzione di definire perimetri e rinsaldare solidarietà interne di gruppo, ma anche con confini porosi che permettevano un costante adattamento ai cambiamenti del contesto. A quella età delle identità ideologiche è succeduta una stagione di segno opposto, in cui è prevalsa la forza centrifuga dell’espressività individuale.

L’identità non è stata più cercata nell’unione con un’anima collettiva ma nell’esplorazione individuale all’insegna di interessi sempre più specifici, potenzialmente divaricati rispetto alla dimensione collettiva. Per un quarto di secolo questa è stata l’esigenza dominante ed ha portato ad una esplosiva affermazione di ciò che distingue rispetto a ciò che unisce. Ma con il tempo la spinta dei “movimenti di espressione” a sostituire i “movimenti di identificazione” ha mostrato i suoi limiti. Intanto, in termini di crescita della disuguaglianza. E poi per l’esposizione del tessuto sociale all’azione corrosiva di un’idea basata sul primato del profitto rispetto alle altre componenti dell’azione economica. L’idea che la crescita economica potesse prescindere dalla coesione sociale ha mostrato sempre più la corda, così come anche la teoria secondo cui la società è nulla perché contano solo gli individui. Perciò torna oggi attuale il tema delle identità collettive. Il punto, oggi, è come affrontare la percezione di abbandono sociale in cui questa seconda fase ci ha lasciati. È però impensabile tornare indietro, a un’epoca in cui le istituzioni politiche ancora riuscivano ad incanalare i movimenti della società civile orientandone energie e aspettative verso obiettivi di progresso condiviso. Abbiamo bisogno di immaginare un nuovo tipo di organizzazione del legame sociale. Una terza fase, di ricostituzione di identità collettive, deve tenere insieme bisogno di soggettività e valore della comunità. È questo il problema da affrontare per la ricostruzione di uno spazio pubblico che ridia vigore alle istituzioni democratiche. Per ripensare il legame sociale occorre, per dirla con Pierre Rosanvallon, reimparare a scrivere «il romanzo di una società nel medesimo momento in cui gli individui scrivono il loro diario privato». L’esperienza della pandemia ci ha ricordato lo stretto intreccio tra destini individuali e destini collettivi. Nel momento in cui siamo stati obbligati al distanziamento abbiamo riscoperto il valore della prossimità, che non può fare a meno di vedere un simile anche nel diverso. Costruire un nuovo legame sociale a partire dalla ricerca di identità inclusive non è questione di buoni sentimenti o di un approccio puramente valoriale. In gioco c’è anche del-l’altro, ovvero la creazione di quella rete di rapporti di fiducia – anche verso chi conosciamo poco – senza della quale nessun sistema funzionerebbe (neppure quello economico). Significa riconoscere che il bene comune non è un’entità astratta ma è piuttosto la somma delle azioni concrete di ogni singola persona. Il senso civico non è un’attitudine naturale bensì il risultato di scelte intenzionali, che richiedono impegno e dedizione. È la costruzione di un capitale sociale, non meno importante di quello finanziario o di quello naturale. C’è ancora spazio per puntare alla creazione di capitale sociale perché non è vero che oggi le persone non abbiano la voglia e il tempo di essere coinvolte in questioni civiche. È vero invece che non sono disposte a farlo dentro gli schemi del passato.

Perciò, anziché nei contenitori dei tradizionali movimenti di massa, l’impegno civico prende soprattutto le forme dell’azione locale, su piccola scala, in quanto presa in carico degli ambienti in cui viviamo e delle situazioni che ci interpellano direttamente. È questo il terreno in cui sono più presenti le organizzazioni del Terzo settore e dell’economia sociale, come espressioni di una società civile che si fa carico di soluzioni e non solo della formulazione di bisogni. Nel nuovo ciclo che si sta aprendo, in questa necessaria terza fase in cui le ragioni delle persone e le ragioni della comunità vanno nuovamente coniugate insieme, alle organizzazioni della società civile spetta il compito di correggere le conseguenze della disintermediazione e rigenerare fiducia nelle istituzioni della democrazia, agendo da antidoto all’apatia sociale. Ma per farlo, occorre esplicitare l’idea della società che si vuole, mostrando di saper trarre le conseguenze del proprio fare in termini di pensiero politico, di presenza nel dibattito pubblico, di capacità di rigenerazione dei fondamenti di una cultura civica. In altre parole, uscendo dalla condizione di minorità in cui a lungo si è rimasti, un po’ per responsabilità altrui e un po’ per riluttanza a lasciare la propria zona di sicurezza.

*Presidente e segretario generale di Euricse

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