Campi petroliferi in California - Reuters
Che dietro ci siano ragionamenti elettorali, di mercato o semplici strategie in un mondo alle prese con conflitti in crescita e sempre più pressioni verso la transizione energetica è certo. Sta di fatto che dopo un biennio in cui la corsa globale alle fonti energetiche ha avuto un’impennata, spuntano ora nuovi segnali di “pausa”. E non è un caso nemmeno che il tutto avvenga in un momento in cui alcune tradizionali vie commerciali, come la rotta attraverso il Mar Rosso bersagliata dai miliziani sciiti Houthi, sono nel mirino di gruppi armati. A livello globale la stretta sugli idrocarburi c’è. L’ha sottolineata nei giorni scorsi anche il Forum dei Paesi esportatori di gas (Gecf), che rappresenta oltre i due terzi delle forniture di gas mondiali e ha tra i suoi membri anche Qatar e Russia: la contrazione dei mercati globali del gas naturale, secondo il Forum, si allungherà addirittura fino al 2026.
Se dall’Arabia Saudita il gigante petrolifero Saudi Aramco ha annunciato ieri che non proverà ad aumentare la sua produzione di greggio a 13 milioni di barili al giorno, mantenendola a quota 12 milioni, da Washington il presidente Usa Joe Biden ha “messo in pausa” l’approvazione per nuovi mega-progetti di esportazione di gas naturale liquefatto (Lng), una mossa accolta con favore dagli ambientalisti e che potrebbe mantenere fino alle elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre. In questa fase, ha spiegato il Dipartimento dell’Energia Usa, verrà condotta un’indagine sugli impatti economici e ambientali dei progetti. Biden, alla ricerca soprattutto del consenso dei giovani, tra i quali il dossier ambiente è in cima alla lista delle scelte elettorali, ha motivato la decisione soprattutto con considerazioni sulla crisi climatica, «la minaccia esistenziale del nostro tempo». Dietro, però, c’è anche il ragionamento sul fatto che il 2023 ha visto gli Usa già al top della produzione petrolifera e di gas naturale a livello globale e con un’autonomia energetica ormai consolidata. Non c’è necessità, al momento, di fughe in avanti, insomma, fermo restando che Washington ha sottolineato che per le aziende e i Paesi alleati – che dipendono dalle forniture di gas naturale Usa, dopo la scelta di rinunciare a quelle russe in seguito alla guerra in Ucraina – saranno sempre garantiti i quantitativi necessari di idrocarburi.
L’Europa resta l’area mondiale con il maggior grado di dipendenza energetica (55,5%), mentre il dato scende al 20% per la Cina, il cui rallentamento dell’economia incide peraltro molto sul mercato. I prezzi del petrolio oscillano in questa fase tra i 75 e gli 80 dollari: ancora a settembre erano intorno ai 97 dollari. Non è un caso che a novembre scorso i produttori dell’Opec+ abbiano concordato tagli volontari alla produzione per un totale di circa 2,2 milioni di barili al giorno per il primo trimestre 2024, tagli che potrebbero proseguire anche oltre pur di sostenere i prezzi. Secondo l’Algeria, la produzione inferiore «mira a riorganizzare il mercato petrolifero internazionale sulla base dei suoi fondamentali, piuttosto che sottoporlo alle fluttuazioni irrazionali degli speculatori, responsabili di una crescente volatilità e di una significativa instabilità».
Tra le principali cause del calo dei prezzi, l’attivismo Usa, che nel 2023 hanno raggiunto una produzione da record nel settore oil & gas: un barile di greggio su otto, nel mondo, è ormai prodotto negli Stati Uniti. Negli ultimi tempi l’aumento di produzione ha fatto aumentare le accuse degli ambientalisti verso l’amministrazione Biden, tacciata di “ipocrisia” per il mancato mantenimento delle promesse di transizione ecologica e l’aumento di perforazioni, con l’obiettivo di mantenere sotto controllo i prezzi dei carburanti. La pausa annunciata ora da Washington – che avrà conseguenze a livello globale – è stata per questo accolta dagli ecologisti come una «pietra miliare».