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L’era post Covid ha messo in ginocchio i colossi del food delivery alle prese con un aumento dei costi e una contrazione di clienti e ricavi. Giovedì Uber Eats, “costola” delle consegne a domicilio della multinazionale americana della mobilità, ha annunciato che tra un mese lascerà l’Italia: un mercato considerato poco proficuo dopo sette anni di permanenza. Arrivata a Milano nel 2016 Uber Eats ha messo radici in sessanta città, collaborato con seimila ristoranti, assoldato migliaia di rider. Ma non è bastato. Sono una quarantina gli impiegati che verranno perderanno il posto, mentre i fattorini, inquadrati come lavoratori autonomi, . L’obiettivo dichiarato di Uber è quello di competere solo nei Paesi con quote di mercato elevate come Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania. In questa direzione va letto il ritiro anche da Israele, annunciato in contemporanea. In Italia il mercato è in mano alle rivali Just Eat e Glovo. Nel settore del food delivery, quella di Uber non è la prima chiusura. L’anno scorso era stato Gorillas, il servizio di consegna della spesa veloce a domicilio, a licenziare 540 persone prima di essere rilevato dalla turca Getir. Nel nostro Paese i lavoratori della gig economy, secondo le stime dell’Inapp relative al 2022 sono più di 570mila, di cui circa 60mila (stima fatta dal Tribunale di Milano nel corso dell’inchiesta sul caporalato) sono rider.
Uber ha scelto comunque di restare in Italia concentrandosi sui servizi di mobilità: dal mese prossimo lavorerà in tandem con It Taxi, il più grande operatore di prenotazione italiano con oltre 12mila tassisti. La presenza in Italia del colosso americano è stata caratterizzata da turbolente vicende giudiziarie. Nel 2020 è stata commissariata per caporalato: ai rider, assoldati da due società di intermediazione, venivano pagati tre euro l’ora. Nel 2022 sono arrivati i risarcimenti per un centinaio di lavoratori mentre lo scorso aprile c’è stata una nuova condanna per comportamento antisindacale legata all’utilizzo degli algoritmi.
L’addio di Uber Eats, che lascia presagire l’apertura di una stagione di crisi, ha mobilitato i sindacati che chiedono al governo misure adeguate per proteggere i rider in caso di cessazione dell’attività. In Europa da tempo si studiano modelli di tutela sostenibili: è fresca di approvazione in Consiglio Europeo del testo per la “Direttiva sul lavoro di piattaforma” che prevede un inquadramento da dipendenti per i lavoratori della gig economy. La sua applicazione potrebbe portare a circa 5 milioni di nuovi assunti con contratto da dipendente, sui 28 milioni di persone attualmente impiegate nelle piattaforme digitali. ll grosso di queste assunzioni riguarderebbe, secondo i sindacati europei, proprio i rider.
La segretaria confederale della Cgil Francesca Re David sottolinea che i rider Uber «inquadrati come collaboratori occasionali e a partita Iva, non avranno diritto agli ammortizzatori sociali né ad alcun sostegno pubblico per un’eventuale ricollocazione». Sulla stessa lunghezza d’onda la Cisl che propone di riconoscere ai rider la cassa integrazione straordinaria e adeguati percorsi di reinserimento e chiede ad Assodelivery e al governo un incontro urgente.
Per il sindacato autonomo dei rider Milano Deliverance le ragioni della chiusura di Uber Eats, spiegate in maniera chiara e limpida dagli investitori, fanno emergere il vero problema. «Il mercato del delivery è saturo e che non basta alle multinazionali come Uber, Deliveroo, Glovo o Foodora comprimere al massimo il costo del lavoro e il rischio d’impresa, scaricandolo sulle spalle dei lavoratori attraverso il cottimo, per restare in piedi. Questa è la riprova del fatto che occorre regolamentare al più presto la categoria e incentivare la contrattazione tra le parti sociali per garantire i lavoratori».
Situazione analoga anche a livello mondiale: il Finacinal Times in un recente articolo stima un taglio del 15% dei lavoratori delle piattaforme che durante gli anni della pandemia hanno fatto affari d’oro e aperto “cucine fantasma” (locali dove viene prodotto il cibo per le consegne) per riuscire a soddisfare la clientela. Adesso però il vento è cambiato: gli ordini sono in calo e le commissioni elevate delle app, stimate tra il 15 e il 30%, stanno spingendo molti ristoranti a fare le consegne in proprio. Sarà difficile mantenere i costi di consegna bassi. Per farlo le piattaforme licenziano (Grubhub e DoorDash negli Usa hanno tagliato rispettivamente 2800 e 1250 lavoratori) o si ritirano dai mercati meno effervescenti: Deliveroo ha lasciato l’Australia e Zomato ha sospeso le consegne in 255 città indiane.