Se avessimo detto dieci anni fa ai monetaristi ortodossi e ai sostenitori del rigore in bilancio pubblico che sarebbe stato opportuno che la Banca centrale europea detenesse circa un quarto del debito pubblico dei Paesi membri, ci avrebbero accusato di eresia. Paventando i molteplici rischi di azzardo morale (incentivo a politiche fiscali lassiste dei paesi membri), inflazione, reputazione dell’Istituto centrale, controllo del tasso di cambio. L’eresia si è materializzata, e alla fine è stata benedetta dagli stessi ortodossi. La reputazione della Bce è oggi più forte che mai, il cambio solido e la politica monetaria non convenzionale, accompagnata da meccanismi come quelli del Pnrr, è efficace contro l’azzardo morale. Perché libera risorse importanti per le politiche fiscali, finalizzandole a un obiettivo rigoroso e condiviso e monitorandone l’utilizzo corretto (si veda su questo la proposta delle «spese per il futuro» formulata nel documento del Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e del Presidente francese Emmanuel Macron di riforma del Patto di stabilità e di gestione del debito). Non solo: l’aumento progressivo della quota di titoli pubblici detenuti dalla Banca centrale europea ha scongiurato alla radice possibili crisi finanziarie in un periodo in cui i rapporti debito/PIL sono saliti sensibilmente per effetto della pandemia.
E l’inflazione ? In questi anni è sempre stata sotto l’obiettivo minimo della Bce, e il suo aumento di oggi non dipende dalle sue politiche monetarie, ma dal combinato disposto degli choc della pandemia e dell’aggressione dell’Ucraina. Quest’ultima, come sappiamo, ha fatto esplodere il prezzo di gas e petrolio che incidono sui costi di produzione di quasi tutte le filiere. L’inflazione depurata dal fattore energia in Italia sarebbe ancora sotto il 2%. La nuova situazione, però, un problema lo pone. È ancora possibile per la Bce mettere assieme politiche monetarie espansive (a prova di azzardo morale) e interventismo nella gestione del debito pubblico con la lotta all’inflazione ? Alcuni colleghi lo ritengono problematico, e per tale motivo hanno formulato l’ipotesi della nascita di un’agenzia del debito. La nostra proposta indica un’altra via possibile. Una strada che non richiede il difficile passaggio della nascita di una nuova istituzione né l’implicita mutualizzazione del debito, nominalmente ancora un tabù per alcuni Paesi dell’Eurozona. Il caso di scuola che abbiamo fatto per spiegarla è in estrema sintesi il seguente: ipotizziamo che con una manovra di mercato aperto la Bce venda alle banche sul mercato il 25% delle quote di debito pubblico dei Paesi membri (assorbendo di fatto il triplo di quantità di moneta, se stimiamo sulla base dei dati correnti un moltiplicatore della moneta pari a 'tre') e al contempo acquisti il 75% delle quote di debito pubblico pagandole con euro digitale di nuova emissione, vincolando però la nuova valuta ad una riserva obbligatoria del 100%. Ebbene, con questa manovra la Bce triplicherebbe la quota dei titoli di Stato detenuti (riducendo ulteriormente il loro premio di rischio) sterilizzando gli effetti della manovra sulla base monetaria e quindi senza produrre alcun effetto inflattivo. Il ragionamento che effettuiamo è necessariamente semplificato per i lettori. Il rapporto tra base e broad money che chiamiamo moltiplicatore non è costante nel tempo, va stimato empiricamente e l’iniziativa calibrata sul suo valore atteso. Il caso da noi esposto è solo un esempio che può essere calibrato sulla base degli obiettivi finali desiderati (effetti sulla base monetaria, quota di debito pubblico dei Paesi membri detenuta dalla Bce a fine manovra) e ragionando su quante emissioni governative sarebbero acquistate da famiglie e imprese e di quanto la moneta in loro possesso sia ad alto potenziale o meno (quella detenuta dalle famiglie solo per la quota versata sui depositi bancari).
Per tranquillizzare i rigoristi, sono possibili manovre molto meno drastiche, che si pongano l’obiettivo di portare ad esempio al 30% la quota dei titoli detenuti dalla Bce decidendo un effetto finale espansivo o restrittivo sulla base monetaria. L’elemento di novità dell’idea è quindi introdurre un grado di libertà aggiuntivo nelle politiche della Banca centrale, consentendole di affrontare meglio il problema dell’obiettivo confliggente tra lotta all’inflazione e gestione del debito, ovvero quello della decisione del coefficiente di riserva obbligatoria su una nuova valuta (l’euro digitale), approfittando di un evento unico che è la sua nascita. Questo consente di calibrare l’intervento solo su un flusso e non sull’intero stock della moneta bancaria. Una questione su cui riflettere è se l’euro digitale rappresenti moneta più o meno appetibile per famiglie e banche. Nel primo caso non cambia nulla, data la parità 'uno a uno' con l’euro tradizionale. Nel secondo caso, invece, il problema sorge perché per le banche l’euro digitale ha costi- opportunità maggiori per le minori possibilità a esso connesse di creazione di prestiti bancari. Le banche potrebbero non volerne detenere o fissare implicitamente nei loro comportamenti un tasso di cambio ombra rispetto all’euro tradizionale. Una banca con più euro digitali rispetto agli euro tradizionali si troverebbe di fatto in difficoltà rispetto ai concorrenti. La questione potrebbe essere però risolta se la Bce fissasse un tasso di remunerazione per l’euro digitale depositato dalle banche a riserva superiore a quello delle riserve in euro tradizionali (ora remunerate allo -0.50%). Tale spread sarebbe tale da allineare il rendimentorischio dell’euro digitale e dell’euro convenzionale. Consideriamo infatti che nella manovra originaria le banche cederebbero titoli pubblici (attività con un certo rischio-rendimento) per ottenere in cambio un asset con un rendimento penalizzato dalla riserva al 100%, ma con rischio 'zero'. Una piccola remunerazione su tale asset (inferiore al rendimento dei titoli di Stato venduti) riequilibrerebbe la situazione, rendendo le due attività egualmente appetibili e l’euro digitale appetibile come l’euro convenzionale. La definizione di questo tasso rappresenterebbe – di fatto – un nuovo strumento di politica monetaria della Bce, strumento necessario per regolare gli effetti della nuova valuta sulle politiche monetarie e sugli obiettivi della Banca centrale. D’altra parte, l’euro digitale per sua natura consisterebbe in un conto presso la Bce, che a differenza del contante si può detenere e trasferire senza alcuna difficoltà. E inoltre, risulta privo dei rischi associati alle 'corse ai depositi' responsabili delle devastanti crisi bancarie viste più volte nel corso degli anni.
Perché, dunque, famiglie e imprese dovrebbero volerli depositare in banca? Per depositanti alfabetizzati digitalmente (capaci cioè di usare conti online) gli euro digitali avrebbero la stessa comodità nei pagamenti oggi fornita dal deposito bancario. Quindi, se per i depositi bancari non vigesse la riserva al 100%, depositandoli presso banche private ne aumenterebbe il rischio. In questa prospettiva, la nostra proposta, potrebbe anche salvare il sistema bancario stesso da un rischio di disintermediazione comunque associato alla nuova valuta. Con l’avvento dell’euro digitale, le banche perderebbero sempre più il ruolo di creatrici di moneta, ma offrirebbero ai loro depositanti migliori occasioni di investimento, grazie alla conoscenza accumulata del tessuto imprenditoriale e dei potenziali debitori, moderando il rischio con la diversificazione. Permetterebbe inoltre alle banche più produttive di guadagnare compartecipando in una quota negoziata ai rendimenti dei fondi dei depositanti. L’Unione Europea è uscita rafforzata dai tremendi eventi della pandemia e dell’invasione dell’Ucraina non perché viva di rendita, ma perché ha saputo usare storicamente la sua forza per mettere in atto processi di pace e di condivisione delle risorse (dalla nascita della Ceca fino al Pnrr e agli acquisti di titoli della BCE). Non è il momento di riposare sugli allori, ma di rilanciare con ulteriori innovazioni la sfida.
*Economisti, Becchetti insegna nell’Università romana di Tor Vergata, Cozzi nell’ateneo svizzero di St.Gallen