venerdì 16 giugno 2023
Le responsabili d’azienda sono il 31,5% (30,7% nel 2010). Mentre sono oltre 820mila le lavoratrici, il 30% circa del totale delle persone occupate nel settore
Crescono le imprenditrici agricole

Crescono le imprenditrici agricole - xFarm

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Le donne nel mondo dell’agricoltura hanno sempre fatto la loro parte: figlie, sorelle, mogli e madri delle famiglie contadine che partecipavano alla vita nei campi al fianco degli uomini; mondine che vedevano il lavoro nelle risaie come un agognato strumento di emancipazione. Sono oltre 820mila le lavoratrici in agricoltura – il 30% circa del totale delle persone occupate nel settore. Ma se è vero che le donne in agricoltura sono sempre state parte attiva, è altrettanto vero che è nei ruoli apicali che la loro presenza è meno accentuata. Qualcosa sta però cambiando, all’interno delle aziende agricole infatti si sta rafforzando la partecipazione delle donne nel ruolo manageriale. I capi d’azienda donna sono infatti il 31,5% (30,7% nel 2010). Le donne in agricoltura stanno quindi progressivamente guadagnando quei ruoli di controllo e amministrazione che un tempo erano loro ingiustamente preclusi. Non solo donne imprenditrici, ma anche donne esperte delle più recenti tecnologie applicate all’agricoltura 4.0, perché il comparto non è mai stata così tanto una “cosa da donne”. Lo sa bene xFarm Technologies, che punta alla digitalizzazione del settore agroalimentare, fornendo strumenti innovativi a supporto degli agricoltori e che promuove al contempo la causa dell’inclusività. «In xFarm Technologies, la ricerca di nuove risorse è sempre attiva e ci auspichiamo di poter accogliere negli anni sempre più donne, siamo infatti convinti che la diversità non possa che essere un valore aggiunto all’interno di ogni organizzazione», spiega Elisa Mancini, Head of People in xFarm Technologies. La realtà, infatti, nonostante a oggi conti ancora un numero di donne inferiore a quello dei colleghi uomini, le vede impegnate in ruoli chiave, tra cui il growth marketing, il product management e il software e web frontend development. «Per far crescere in modo sano e lungimirante un’azienda è importante puntare sulle competenze del singolo, al di là del genere di appartenenza», racconta Mancini, esperta di risorse umane dalla carriera ventennale. È in aziende come questa, in cui l’agricoltura si intreccia al mondo del tech, che si mostra però il divario che esiste ancora oggi in Italia, tra uomini e donne, sul piano dell’accesso alle facoltà scientifiche. «Ci sono meno donne che decidono di affrontare studi Stem, ma è una dinamica destinata a cambiare negli anni a venire. È un processo già in atto, perché il mondo della tecnologia non è affatto una cosa solo da uomini, anche se per molto tempo ci hanno convinte del contrario», aggiunge Mancini. Escludere una fetta di popolazione da ruoli chiave nel mondo dell’agricoltura e dell’Agritech non avrebbe alcuna solida motivazione. Il rischio infatti è quello di privarsi, senza alcuna ragione, delle competenze e del sapere di un nutrito numero di professioniste, solamente perché donne. È questa la posizione di Deborah Piovan, divulgatrice scientifica, esperta di biotecnologie nel campo dell’agricoltura ed imprenditrice agricola che ha digitalizzato la propria azienda. Piovan non ne fa una questione di discriminazione di genere, sottolineando però come in tutto il mondo del lavoro, anche in agricoltura, quello che manca è troppo spesso un reale supporto da parte delle istituzioni: «Se vogliamo più donne in agricoltura, in generale se vogliamo più donne occupate, è necessario prevedere un più strutturato supporto alle famiglie. Che significa, per cominciare, maggiori servizi per l’infanzia facilmente accessibili e un adeguato congedo parentale anche per la figura paterna». In effetti, con 65 punti su 100, l'Italia si colloca al 14esimo posto nell'Unione Europea nell’European Gender Equality Index, l’indice che valuta la condizione della donna nei singoli Stati dell’Ue. In particolare, dal 2019 il punteggio dell'Italia è diminuito di 0,5 punti proprio nella categoria dedicata al lavoro, dove attualmente ottiene 63,2 punti e si colloca all'ultimo posto tra tutti gli Stati membri dell'Ue. Sara Carioni, giovanissima, classe ‘99, cresciuta tra gli appezzamenti dell’azienda agricola di famiglia, in cui oggi si occupa della gestione dell’allevamento dei bovini e della pianificazione e conduzione della campagna sottolinea come sia necessario un cambio di prospettiva: «Io mi sento molto fortunata perché nella realtà in cui io mi trovo a operare molta fiducia è riservata ai giovani e alle nuove tecnologie. Credo infatti che un atteggiamento di apertura sia l’unica via per il successo di un’azienda agricola oggi. Non c’è motivo di rimanere aggrappati a vecchi paradigmi, lo stesso vale per quanto riguarda le donne in agricoltura, in particolare nei ruoli di gestione. Ma non solo, infatti, nonostante possa capitare di non sentirsi all’altezza confrontandosi con i collaboratori uomini, ho sempre voluto mettermi in gioco rompendo gli schemi imparando, anche, a guidare il trattore che volutamente è rosa a testimonianza che il cambiamento, se si vuole, è possibile».

Imprese agricole sempre più tecnologiche

Le imprese agricole accelerano il passo per recuperare il ritardo nel cammino verso la transizione digitale. Il 23% delle aziende del settore sta adottando o intende adottare tecnologie 4.0 tra il 2022 e il 2024, contro il 4% del triennio 2017-2019 e il successivo balzo al 20% nel biennio dell’emergenza pandemica. Ma per un’azienda del settore su quattro le risorse economiche insufficienti sono il principale freno a investire nella digitalizzazione. Anche per queste imprese il Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza potrebbe essere un’opportunità da cogliere, tuttavia il 69% delle aziende del settore dichiara di non volere o di non potere accedere a queste risorse. Mentre solo il 16% si è già attivato e un altro 15% ha in programma di farlo. È quanto emerge da un’indagine del Centro Studi Tagliacarne su un campione di 800 imprese agricole con almeno due addetti secondo cui un’impresa agricola su due conta di superare i livelli pre-Covid entro il 2024. Più nel dettaglio la scarsità delle risorse finanziarie è un ostacolo agli investimenti in tecnologie abilitanti avvertito particolarmente dalle imprese femminili del settore (49% contro il 25% delle aziende agricole complessive). Ma a creare maggiori difficoltà a investire nella transizione digitale sono anche i costi troppo elevati delle tecnologie (23%) e la scarsa informazione sull’iter per investire in tecnologie digitali (21%). L’86% delle imprese agricole fa ricorso al capitale proprio o familiare per finanziare la gestione corrente e realizzare investimenti. Un dato che conferma la scarsa capitalizzazione delle aziende di questo settore, dove il capitale aziendale si confonde con quello personale. Ma quando le aziende ricorrono all’esterno per trovare le risorse necessarie, il 52% si rivolge agli istituti di credito mentre appena il 25% utilizza i finanziamenti pubblici diretti. La metà delle imprese agricole (il 49% per esattezza) sta realizzando o intende realizzare investimenti "verdi" tra il 2022 e il 2024, con picchi che salgono al 61% per le imprese guidate da donne e al 55% per quelle under 35. Ma il Sud resta indietro (43%). Mentre dal punto di vista settoriale più sensibili alla sostenibilità si rilevano le imprese del settore agricolo (58%) meno quelle della silvicoltura (31%). Imboccare la strada della transizione green non sembra preoccupare particolarmente le imprese del settore. L’86% delle imprese dichiara, infatti, l’assenza di particolari difficoltà all’introduzione di investimenti green nella propria attività. Maggiori problematicità si riscontrano in corrispondenza della ricerca delle figure professionali necessarie (12%) e dei costi di approvvigionamento delle materie prime verdi troppo elevate (10%). Mentre le risorse finanziarie sono un problema solo per l’8% delle imprese del settore. Ben il 78% delle imprese intervistate dichiara che investire in sostenibilità è un’opportunità per il proprio business, contro il 63% delle imprese industriali e il 55% dei servizi. Ma per il 22% la via “verde” rappresenta solo un vincolo. In particolare, il 47% è mosso dalla necessità di rispettare le regole imposte a livello nazionale ed europeo, il 22% dalla consapevolezza del rischio aziendale causato dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, il 21% dalle migliori ricadute sull’immagine e sulla reputazione dell’azienda. Tra i principali risultati conseguiti dalle aziende che hanno realizzato investimenti verdi - il 50% nel quinquennio 2017-2021 - la riduzione dei rifiuti o degli scarti di produzione va per la maggiore (63%). Seguono, al secondo posto l’utilizzo di energie rinnovabili (47%) e al terzo il risparmio idrico (39%). Appena il 13% delle imprese agricole dichiara di avere più di qualche grattacapo con il passaggio del “testimone”. Ma per il 59% dei casi il ricambio generazionale non è un problema, perché è già stato fatto oppure perché non in agenda. Il 45% delle imprese è ancora alla prima generazione, con picchi nella Silvicoltura (68%) e nel Sud Italia (59%). Mentre, il 38% è alla seconda generazione e solo il 16% alla terza o successiva. Colpisce che più dei due terzi dei giovani imprenditori agricoli non hanno fondato l’impresa ma l’hanno ricevuta in eredità. Sebbene solo un imprenditore agricolo su dieci sia in possesso di un diploma di laurea, la quota di laureati sale al 26% tra le imprese giovanili e al 21% tra quelle femminili. Nel complesso i “dottori” sono in numero maggiore tra gli i capitani di impresa con più di 50 addetti (23%) e nel Centro Italia (18%). Le imprese agricole mostrano una maggiore capacità di fare network con gli altri attori della filiera: il 42% punta a favorire la partecipazione dei dipendenti allo sviluppo dei progetti di innovazione (contro il 37% di imprese industriali e il 32% di imprese terziarie); il 37% ad instaurare collaborazioni con le associazioni di categoria (contro 30% delle imprese industriali e il 31% delle imprese di servizi), il 35% a sviluppare partnership con altre imprese (contro al 30% delle imprese manifatturiere e il 25% di quelle di servizi); il 60% ad investire in capitale umano ( contro il 51% delle imprese manifatturiere e il 45% delle imprese di servizi). Anche nella scelta dei propri fornitori la relazione stabilita nel tempo premia. Oltre la metà delle imprese agricole scegli i propri supplier infatti in base alla fedeltà dimostrata. Mentre per il 24% è determinante il binomio qualità/prezzo e per il 16% fa la differenza l’affidabilità del fornitore. Più dinamiche sulla capacità di fare network sono, in generale, le imprese giovanili, meno quelle del Mezzogiorno.

Il Rapporto Federalimentare-Censis

Dal primo Rapporto Federalimentare-Censis Il valore economico e sociale dell’industria alimentare italiana emerge come l’industria alimentare italiana, con 179 miliardi di euro di fatturato annuo, 60mila imprese, 464mila addetti e oltre 50 miliardi di euro di export in valore in un anno, rappresenti una componente di primo piano dell’interesse nazionale. Oltre a generare prodotti e occupazione, e quindi esprimere un forte potenziale economico, l’industria alimentare con la sua attività contribuisce al benessere psicofisico e alla qualità della vita degli italiani, dimostrando così anche un elevato valore sociale. È anche una protagonista di rilievo all’interno della filiera del food italiano, che ha un fatturato totale di 607 miliardi di euro, in valore pari al 31,8% se rapportato al Pil, con 1,3 milioni di imprese, 3,6 milioni di addetti e che costituisce quindi un patrimonio di interesse nazionale. Nelle graduatorie dei settori manifatturieri italiani l’industria alimentare è al primo posto per fatturato, al secondo posto per numero di imprese, per addetti e per l’export in valore. In dieci anni il fatturato ha registrato in termini reali un incremento del 24,7%, il numero di addetti del 12,2% e il valore delle esportazioni del 60,3%. L’industria alimentare risponde a una spesa interna che, come quota del totale della spesa, è in Italia pari al 16,6%, come la Spagna, superiore a Francia (15,7%), Paesi Bassi (13,9%), Germania (13,4%) e media della Ue a 27 Paesi (16,1%). Come si evince dal Rapporto, poi, l’86,4% degli italiani dichiara di avere fiducia nell’industria alimentare italiana ed è una fiducia trasversale, che coinvolge il 93,8% degli anziani, l’84,2% degli adulti e l’81,6% dei più giovani. La ricerca evidenzia la riconoscibilità dell’origine localistica, territoriale di marchi e prodotti, che va di pari passo con la vocazione a conquistare i mercati con il made in Italy. Il 78,3% degli italiani valuta molto positivamente che gli stabilimenti dell’industria alimentare siano localizzati in Italia, perché contribuiscono alla creazione di redditi e occupazione nei territori coinvolti. Inoltre, pur in situazioni di crisi e nell’attuale inflazione, l’industria alimentare ha sempre garantito un’articolazione interna di prezzi che rende possibile l’inclusività, anche dei gruppi sociali più vulnerabili, nei consumi alimentari. Il 90,7% degli italiani dice che mangiare il cibo che preferisce è importante per il proprio benessere psicofisico. Pur non rinunciando al rigoroso controllo del budget familiare, il 63,4% degli italiani per alcuni alimenti acquista solo prodotti di qualità, senza badare al prezzo. Il 79%, pur praticando diete soggettive nel perimetro di quelle tipicamente italiane, apprezza la disponibilità di nuove referenze nei punti vendita. È il senso del ruolo sociale di promozione del benessere e di welfare dei consumi alimentari. Il 42,1% degli italiani a tavola nel quotidiano si definisce un abitudinario, cioè mangia più o meno sempre lo stesso cibo, il 20,5% un innovatore a cui piace sperimentare alimenti e gastronomie nuove, il 9,2% un salutista che mangia sempre e solo cibo che fa bene alla salute, il 7% un appassionato, cura la spesa e gli piace cucinare, il 6,3% un italianista, vuole sempre e solo prodotti italiani, il 5,8% un convivialista, considera il cibo importante perché occasione per stare con gli altri, il 4,4% godereccio, perché mangia sempre quel che gli piace. Ma cosa mangiano gli italiani? Il 92,7% ha l’abitudine di mangiare un po’ di tutto senza vincoli particolari, solo il 7,1% si dichiara vegetariano e il 4,3% vegano o vegetaliano. Per gli italiani, infine, sono importanti anche i valori etici e sociali che li orientano quando fanno la spesa o si mettono a tavola: il 66,7% è pronto a rinunciare a prodotti che potrebbero essere dannosi per la salute, il 52,6% a quelli non in linea con criteri di sicurezza alimentare, il 43,3% a quelli la cui produzione e distribuzione non rispetta l’ambiente, il 35,6% a quelli per la cui produzione non sono tutelati i diritti dei lavoratori e dei fornitori.

Master del cibo e tre borse di studio

Salov Spa, Gruppo industriale del settore oleario con sede a Massarosa (Lucca), ha siglato un accordo con il master in Food quality management and communication dell’Università di Pisa, un percorso di alta formazione universitaria, rivolto ai neo-laureati di tutte le discipline e professionisti già impegnati nel mondo del lavoro e pensato per chi vuole acquisire competenze manageriali per lavorare con successo nell’industria agroalimentare, nella ristorazione e nel settore della sostenibilità ambientale. La collaborazione prevede il finanziamento da parte di Salov di tre borse di studio per i migliori studenti iscritti al master e l’intervento in aula di Emanuele Siena, marketing director di Salov, che ha preso attivamente parte al percorso didattico dell’anno accademico in corso. Salov ha già all’attivo diverse collaborazioni con partner accademici, tra le quali quella con il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa nell’ambito del progetto di ricerca applicata Long Life Oil e quella con il Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Pisa per il progetto Innovoil. Con questo nuovo accordo, l’azienda ribadisce l’impegno nel supportare enti di ricerca di eccellenza per rafforzare il proprio legame con il territorio, nell’ottica di contribuire ad accrescerne e a valorizzarne, in particolare, le giovani risorse.

Agricoltura sostenibile

Relatech Spa prende parte al progetto Agritech-Centro nazionale per lo sviluppo delle nuove tecnologie in agricoltura per garantire produzioni agroalimentari sostenibili con l’obiettivo di favorire l’adattamento ai cambiamenti climatici, la riduzione dell’impatto ambientale, lo sviluppo delle aree marginali, la sicurezza, la tracciabilità e la tipicità delle filiere. Una cordata di eccellenze made in Italy che coinvolge 28 Università, cinque Centri di ricerca e 18 imprese esperte del settore agrifood con comprovate competenze in ricerca e sviluppo, e con elevate expertise nelle tecnologie digitali innovative come nel caso di Relatech. Il progetto Agritech è organizzato in nove filoni di progetto declinati su cinque obiettivi strategici: Resilience, Low Impact, Circularity, Recovery e Traceability, per ridefinire gli approcci più appropriati per l’efficientamento e la sostenibilità in ambito agricolo e forestale. In particolare, Relatech è impegnata sugli Spoke 4 e Spoke 6 con i seguenti obiettivi:
• Spoke 4: Sistemi agricoli e forestali multifunzionali e resilienti per la mitigazione dei
rischi del cambiamento climatico: prototipazione di ambienti digitali evoluti e sviluppo di
sistemi di analisi dei dati per la gestione di agricoltura e foreste basata su tecniche di
Intelligenza Artificiale e di Big Data Analytics.
• Spoke 6: Modelli di gestione per promuovere la sostenibilità e la resilienza dei sistemi di
produzione agricola: Sistemi di Workflow Management e Decision Support System per la
modellazione e l’analisi dei processi delle aziende agricole per migliorare l’efficienza delle
colture e prototipazione di strumenti collaborativi per favorire il collegamento delle nuove
soluzioni agricole all’industria agro-alimentare.


La filiera del grano duro

Particolarmente interessante la panoramica sulla filiera del grano duro siciliano offerta dall’esperto di filiere cerealicole Herbert Lavorano: «La Sicilia è il secondo produttore di grano duro in Italia, con un’eccedenza di circa 200mila tonnellate disponibili per l’esportazione (insieme alle Marche, è la principale esportatrice netta di grano duro). Essendo una delle prime regioni Ue a raccogliere il grano, è anche la prima ad apparire sul mercato con il nuovo raccolto. Tuttavia, la produzione regionale subisce un forte svantaggio derivante dalle spese di trasporto e il settore molitorio è caratterizzato da molti semolifici di piccole dimensioni». Francesco Casillo, presidente di Molino Casillo, dichiara che «la Sicilia è oramai un player importante nel mercato mondiale del grano duro e deve essere pronta a fare un passo in avanti nella qualità dei metodi di commercializzazione del grano. Questo potrà avvenire con una maggiore conoscenza degli agricoltori e degli stoccatori sui meccanismi che regolano il commercio del grano duro, che ormai avviene su scala mondiale e non più regionale o locale». Tommaso Brandoni, presidente della Società Produttori Sementi, specificato che «la società posizionerà nel mercato siciliano nuove varietà di grano duro, frutto di una ricerca genetica moderna e innovativa, con varietà adattabili ai cambiamenti climatici, senza perdere di vista le risposte produttive e qualitative». Patrizia Marcellini, direttrice della cooperativa Gaia, illustra invece l’importanza del modello che può essere esportato: «La particolarità di questa cooperativa è che vengono gestiti - direttamente dalla stessa – non prodotti, ma terreni. La cooperativa lavora da oltre 20 anni con i contratti di filiera, una scelta importante che ci ha consentito di operare con più tranquillità proteggendoci dalla volatilità dei mercati». Mauro Acciarri, vice presidente di Compag rimarca il ruolo degli stoccatori privati, che «hanno una capillarità su tutto il territorio nazionale e sono il ponte tra la parte agricola e quella industriale. Le nostre strutture sono quelle che effettivamente detengono la materia prima nazionale e contribuiscono alla valorizzazione e distinguibilità delle produzioni italiane. Sono gli stoccatori e la rappresentanza di settore a tutelare anche la parte agricola, che va supportata anche sul versante dell’assistenza tecnica». È spettato al presidente stesso del Consorzio Crisma, Salvatore Puglisi, spiegare ciò che lo distingue da molti altri: «Due i punti cardine del lavoro del consorzio: l’aggregazione dei produttori agricoli per tramite dei centri di stoccaggio dislocati su tutto il territorio siciliano e la digitalizzazione di tutta la filiera». Salvatore Mangiapane, delegato direzione regionale Sicilia Crédit Agricole Italia: «Per Crédit Agricole l’agroalimentare è un settore di fondamentale importanza in grado di contribuire in modo sostanziale alla crescita economica del Paese e rappresenta uno dei pilastri fondanti delle nostre strategie di business, insieme a sostenibilità e innovazione. In questo contesto si colloca la convenzione con Compag e il nostro desiderio di essere un partner di fiducia per tutte le imprese agricole, facilitando loro l’accesso al credito e accompagnandole con strumenti dedicati che consentano di incentivare lo sviluppo delle filiere, a beneficio della comunità e dei territori. Tra questi, ricordiamo il nostro prodotto Agri Blu, un finanziamento concesso esclusivamente ad aziende che rispettano parametri di sostenibilità sui temi Ambiente, Sociale e Governance che testimonia concretamente l’impegno del Gruppo sul fronte della transizione energetica». Luca Sammartino, assessore all'Agricoltura, allo Sviluppo rurale e della Pesca mediterranea di Regione Sicilia, precisa che «il modello di sviluppo che può valorizzare le produzioni d’eccellenza siciliane è quello della filiera. Il grano duro siciliano rappresenta una vera e propria avanguardia di questo modello, integrando ricerca, innovazione tecnologica e attività di trasformazione. La nostra Regione è il secondo produttore italiano, con una tipologia di grano particolarmente consigliata - per le sue caratteristiche - in una dieta equilibrata e sana come quella mediterranea. Noi come Regione stiamo sostenendo lo sviluppo di questa filiera, perché il grano duro siciliano deve diventare un brand in grado di affermarsi nei mercati nazionali e internazionali: partendo dall’avvio dell’iter per il riconoscimento del marchio Dop per la pasta di grano duro, non più tardi di un mese fa. La vera sfida sarà quella di colmare il gap infrastrutturale, per consentire a tutti i prodotti di eccellenza siciliani di inserirsi nelle catene di distribuzione nazionali e internazionali a parità di condizioni con i competitor».

Opportunità in Puglia

Crescono le opportunità di lavoro in Puglia, soprattutto nei settori dell’agricoltura, del turismo, delle energie rinnovabili e dell’innovazione. «La Puglia – sottolinea Nunzia Sancineto, Area Manager della nuova sede di Bari di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale altamente qualificato – sta vivendo, in questo momento, una fase molto positiva dal punto di vista economico e delle opportunità professionali. Nell’ultimo anno, infatti, sono cresciute del 20% le richieste di professionisti soprattutto nei settori eolico/solare, Digital & Tech e del turismo. Ed è proprio per questo che abbiamo deciso di aprire una sede a Bari, per essere ancora più vicini a candidati alla ricerca di occasioni di crescita professionale e alle aziende alla ricerca, invece, dei migliori talenti». L'agricoltura, insieme al turismo, è uno dei settori trainanti dell’economia regionale che, non dimentichiamolo, è la prima in Europa per la produzione di olio d'oliva e uva. In questo momento, in particolare, ci sono ottime occasioni per figure commerciali che devono favorire lo sviluppo del business, in Italia e all’estero, e per i bio-ispettori, ovvero i tecnici che si occupano di concedere le autorizzazioni alla coltivazione biologica e, periodicamente, di verificare che tutto sia a norma di legge. Andando più nel dettaglio delle zone, possiamo suddividere la regione in distretti. A Bari, per esempio, il settore trainante è la meccanica e le figure più richieste sono sicuramente i responsabili di produzione (che si occupano di pianificare, controllare e coordinare l'attività produttiva), i progettisti (responsabili della redazione e realizzazione di progetti di varia natura) e i manutentori. Brindisi, invece, è leader nel settore aeronautico e aerospaziale e nella produzione di energia elettrica. In questa area si registra un costante impegno – non solo a livello produttivo, ma anche nella ricerca e sviluppo – con particolare riferimento ai settori delle nanotecnologie, delle biotecnologie e della meccatronica. Gli ingegneri aerospaziali, i progettisti meccanico-aerospaziali, gli ingegneri addetti ai sistemi di controllo di volo o addetti ai sistemi di validazione e gli sviluppatori di software hanno, in questo momento, grandi opportunità di carriera e guadagno. Dato il grande sviluppo delle energie rinnovabili (soprattutto eolica e solare), le aziende cercano project manager, responsabili commerciali, technical operation energy (si occupano della gestione degli impianti a fonti rinnovabili), energy trader (comprano, vendono o scambiano energia elettrica per colmare le richieste del mercato) e asset manager (hanno il compito di garantire il rispetto degli indicatori di performance e di eseguire il monitoraggio costante di tutte le componenti principali di impianto). «Un altro settore estremamente interessante e in forte crescita – conclude Sancineto – è quello legato all’ambito It e Digital. La Puglia, infatti, ha recentemente beneficiato degli sgravi fiscali per le Zes-Zone economiche speciali che hanno incentivato l'apertura di grandi multinazionali tech che, in questa fase, sono alla ricerca soprattutto di sviluppatori software».

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