Le donne vittime di stupri, abusi e violenze sessuali in contesti di conflitti armati sono vittime due volte. Degli orrori che colpiscono i loro corpi e della vergogna a cui sono spesso condannate dalla società. Come in ogni processo di deumanizzazione, a essere aggrediti sono il senso di identità di ciascuna e, insieme, il senso di appartenenza a una comunità. Una storia antica che non cessa di trovare riscontri nell’attualità, come attestato nel conflitto fra Russia e Ucraina, o negli attacchi di Hamas sul territorio di Israele il 7 ottobre. Solo di recente stupri e violenze sessuali in contesti di guerra sono stati riconosciuti come “armi” volte all’annientamento dell’altro. Questo cambiamento è il frutto del lungo lavoro delle Corti e degli organismi internazionali, delle operatrici e degli operatori coinvolti sui territori; e soprattutto delle tante donne vittime di violenze che hanno rotto il silenzio, raccontando la propria storia pubblicamente.
Il punto di svolta è stato il conflitto nella ex Jugoslavia, agli inizi degli anni Novanta del XX secolo, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite definì «la prigionia di massa organizzata e sistematica e lo stupro di donne, in particolare donne musulmane, in Bosnia ed in Erzegovina» un crimine internazionale. Con l’istituzione del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, nel 1993 (art. 5 dello Statuto), lo stupro viene qualificato come crimine contro l’umanità quando commesso nel contesto di un conflitto armato e diretto contro le popolazioni civili. Nel 2001, il Tribunale emetterà una fondamentale sentenza nella quale la definizione di schiavitù quale reato contro l’umanità viene estesa alla schiavitù sessuale. Va ricordato anche il contributo del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda che nel 1998 dichiarò per la prima volta gli stupri e le violenze carnali perpetrati in quel Paese come funzionali all’eliminazione di una intera etnia e dunque costituenti atti di genocidio.
Le esperienze di entrambi i tribunali sono poi confluite nell’istituzione della Corte Penale Internazionale de L’Aja, nel 1998, che agli artt. 7 e 8 dello Statuto indica lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione, gravidanza e sterilizzazione forzate crimini contro l’umanità – se perpetrati in forma diffusa e sistematica – e crimini di guerra. Nel giugno 2008, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha quindi approvato la Risoluzione 1820 che condanna lo stupro e altre forme di violenza sessuale quali armi di guerra, osservando come nei conflitti «le donne e le ragazze sono particolarmente colpite dalla violenza sessuale, anche come tattica di guerra per dominare, umiliare, impaurire e disperdere o rilocalizzare civili di una comunità o gruppo etnico».
Ora, come elaborare quell’offesa, come andare avanti senza restare prigioniere di quel che è stato? Le donne sanno rispondere a queste domande. Non a caso, il termine “survivor” è stato applicato per la prima volta proprio a donne che avevano subìto violenze sessuali ed abusi – in particolare nei contesti domestici. Sopravvissute, dunque, anziché vittime, perché chi sopravvive conosce la resistenza alla sofferenza. Nella parola, nel raccontare in pubblico c’è una possibilità di reagire al male patito, così come nell’ascolto reciproco, nella solidarietà. Nei gruppi di mutuo-aiuto a livello locale creati fra donne che hanno subito violenze ci si sostiene a vicenda, si prova a ricostruire la propria dignità umiliata. Ecco perché nelle interviste apparse in queste pagine nell’ambito della campagna #donneperlapace ricorrono parole quali cura, speranza, determinazione, riconciliazione, pace: un vocabolario tutto al femminile. Le donne debbono avere un posto nei tavoli internazionali e locali di dialogo e di trattativa, perché possiedono – e persino il lessico lo attesta! – uno sguardo permeato dalla forza accompagnata dalla compassione. Forse le uniche “armi” che, insieme, potranno cambiare direzione a questo nostro mondo tanto vicino al disastro.
L’autrice di questo articolo è professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna. Esperta di processi di vittimizzazione e di giustizia riparativa